Una capsula collegata a una app per sapere come sta il nostro intestino

via Pixabay

Una capsula ingeribile, contenente batteri viventi geneticamente modificati, potrebbe essere in grado di diagnosticare disturbi gastrointestinali e di trasmettere le informazioni al nostro cellulare grazie ad una app. Con la promessa di poter sostituire in molti casi colonscopie e gastroscopie. Non è fantascienza, ma il risultato del lavoro di un gruppo di ricercatori del Mit di Boston, che descrivono i risultati della loro sperimentazione sulle pagine di Science.

Mark Mimee, Timothy Lu e colleghi hanno sviluppato un dispositivo ibrido bio-elettronico ingeribile, che combina batteri probiotici ingegnerizzati e un microchip elettronico a bassissima potenza, per individuare molecole nello stomaco e nell’intestino associate a disturbi e malattie gastrointestinali. “Combinando sensori biologici ingegnerizzati con l’elettronica wireless a bassa potenza”, ha detto Timothy Lu, coautore dell’articolo, “siamo in grado di rilevare, quasi in tempo reale, i segnali biologici del corpo, aprendo la strada a nuove capacità diagnostiche per la salute umana”.

Nell’ultimo decennio la biologia sintetica ha compiuto grandi progressi nell’ingegnerizzazione di batteri in grado di rilevare inquinanti ambientali e marcatori di malattie. Questi batteri possono essere progettati per produrre dei segnali, come l’emissione di luce, quando rilevano lo stimolo chiave.

Gli autori hanno modificato geneticamente un microrganismo comunemente venduto come probiotico, il batterio Escherichia coli Nissle 1917 (così chiamato perché isolato per la prima volta nel 1917 da Alfred Nissle). Il microrganismo è stato dotato di geni “sensori” in grado di rilevare la presenza dei gruppi eme, composti contenuti nel sangue. In presenza di quest’ultimo, le cellule batteriche modificate emettono una quantità di luce proporzionale alla quantità di questi composti.

Nel dispositivo sviluppato al Mit, le cellule batteriche sono poste in quattro pozzetti, coperti da una membrana semipermeabile che consente solo il passaggio di piccole molecole. Al di sotto di ogni pozzetto vi è un fotorivelatore, che misura la quantità di luce emessa dalle cellule batteriche e trasmette l’informazione ad un microprocessore; questo, a sua volta, invia un segnale in modalità wireless a un computer o a uno smartphone vicino. Una app per Android sviluppata ad hoc consente l’elaborazione e la visualizzazione dei dati in tempo reale. Il dispositivo, lungo quasi 4 cm, richiede circa 13 microwatt di potenza, ed è alimentato da una piccola batteria a bottone da 2,7 volt, con una durata di un mese e mezzo in caso di uso continuato.

Per dimostrare l’efficacia del biosensore, i ricercatori lo hanno testato su maiali in cui veniva provocato sanguinamento gastrointestinale, in seguito a somministrazione di indometacina, un farmaco antiinfiammatorio non steroideo. Il biosensore veniva poi depositato nello stomaco, tramite un tubo e vi rimaneva per l’intera durata dell’esperimento.

Attualmente, se c’è un sospetto di sanguinamento a causa di un’ulcera gastrica, i pazienti devono sottoporsi ad un esame endoscopico, spesso sotto sedazione. “L’obiettivo del sensore è quello di evitare una procedura non necessaria semplicemente ingoiando una capsula per capire in un tempo molto breve se c’è sanguinamento” ha aggiunto Mark Mimee, primo autore dello studio.

I ricercatori hanno adattato il dispositivo per rilevare altri biomarcatori, quali il tiosolfato e gli acil-omoserina-lattoni. Per farlo hanno modificato il ceppo di E. coli con l’introduzione di circuiti genetici inducibili da tali molecole. Il tiosolfato, una molecola contenente zolfo, è un biomarcatore dell’infiammazione intestinale e può essere utilizzato per il monitoraggio di pazienti affetti da morbo di Crohn, colite ed altre condizioni infiammatorie. Gli acil-omoserina-lattoni invece sono le firme molecolari di particolari batteri e possono indicare la presenza di determinati agenti infettivi o commensali nel microbiota intestinale.

Secondo gli scienziati, il prototipo del sensore potrebbe essere adattato per rilevare un gran numero di molecole spia di malattie gastrointestinali. “La maggior parte del lavoro che abbiamo fatto è relativa al sangue – ha spiegato Mimee – ma si può pensare di ingegnerizzare i batteri per sentire qualcos’altro ed emettere luce in risposta a questo”. A questo punto l’obiettivo del team è quello di ridurre la dimensione del dispositivo per renderlo facilmente ingeribile dai pazienti e capire per quanto tempo i batteri spia possono sopravvivere nel tratto digerente.

Inoltre – continuano gli autori – i sensori potrebbero essere progettati in modo da contenere più ceppi batterici per analizzare contemporaneamente una varietà maggiore di condizioni. “Al momento abbiamo quattro siti di rilevamento, ma se potessimo aumentarli a 16 o 256, potremmo avere diversi tipi di cellule ed essere in grado di leggerle tutte in parallelo contemporaneamente”, ha detto Nadeau. Questi sistemi consentiranno una diagnosi minimamente invasiva delle malattie gastrointestinali, consentendo l’analisi di regioni anatomiche altrimenti difficili da raggiungere. In futuro – concludono gli autori – le capsule batteriche, con l’integrazione di ingegneria biologica ed elettronica dei semiconduttori, potranno davvero rivoluzionare la diagnosi e la cura delle malattie dell’apparato digerente.

Riferimenti: Science

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here