Virus e batteri non si curano di nazioni, confini, culture o lingue. Possono replicarsi e diffondersi? Lo fanno. È per questo che non vedrete mai un infettivologo dividere il mondo in altro modo che questo: chi ha un problema da curare, chi ancora non ce l’ha. Per questo Tullio Prestileo responsabile dell’unità operativa per le malattie infettive dell’ospedale civico Benfratelli di Palermo, dal 2017 coordina il progetto ITaCA – Immigrants Take Care Advocac, una rete di 41 centri che forniscono assistenza a chi approda in Sicilia. Scoprendo così che l’allungarsi dei tempi di permanenza in Libia ha portato a un aumento delle infezioni da Hiv.
Quando – tra una visita e l’altra – riusciamo a parlargli al telefono, subito mette in chiaro che il principio secondo cui opera «è come il Vangelo per i credenti». Tutti, infatti, vanno curati, perché se le infezioni non hanno altro scopo che diffondersi, la risposta efficace non può che essere generale.
Cos’è ITaCA, contro virus e batteri
«Ufficialmente, ITaCA nasce nel 2017 dalla sinergia di quattro persone. Davanti a una popolazione vulnerabile sempre più cospicua, io e Ornella Dino, insieme ai colleghi Antonio Craxì e Vito Di Mauro, ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti», racconta con voce roca e pacata. Dino è medico dirigente dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, Craxì e Vito di Mauro lavorano al reparto di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico Giaccone.
I medici si sono divisi i compiti secondo le competenze: “Dino è responsabile del triage al porto di Palermo e fa il primo grosso smistamento tra chi ha problemi di salute urgenti e chi invece può essere mandato ai centri di accoglienza. Qui, dopo un periodo che io definisco il “tempo della fuga”, proponiamo uno screening medico a chi rimane». Il 20-30% dei ragazzi ospitati, racconta Prestileo scappa entro le prime 6 settimane dall’arrivo, per ricongiungersi coi propri parenti all’estero, o per sottrarsi alle organizzazioni criminali verso cui si sono indebitati. «Una schifezza», chiosa Prestileo.
Aumentano le infezioni da Hiv
Nei corpi e nelle storie di chi resta si cercano gli indizi nascosti di patologie latenti o sommerse. «Fino al 2016, le malattie più rilevanti erano l’epatite B e la tubercolosi, quest’ultima, in realtà, quasi mai nella forma contagiosa. Poi, nel biennio 2017-2018 abbiamo osservato un incremento delle infezioni da Hiv a causa di tutto quello che accade in Libia».
Quasi il 70% dei migranti entrati nella rete ITaCA riferisce di angherie, condizioni disumane e stupri. Dal 2017 – l’anno degli accordi stipulati dall’ex Ministro degli Interni Marco Minniti – il tempo di detenzione medio per chi finisce nelle carceri libiche è salito da 13 a 50 settimane. A preoccupare, però, non è soltanto la durata della prigionia: “Nel 2017 e nel 2018 abbiamo osservato un forte aumento nel riscontro di infezioni da Hiv. Con delle analisi univariate e multivariate l’abbiamo potuto correlare all’incremento del tempo di permanenza in Libia e a tutte le porcherie che vengono compiute all’interno di questi lager”.
Infezioni da Hiv e permanenza in Libia
La violenza subita in Libia non lascia solo con cicatrici, lividi e traumi psicologici ma anche con virus e batteri. Infezioni che, senza l’operato di Prestileo e dei suoi colleghi, rimarrebbero incurate per anni, finendo per uccidere e infettare altre vite. Nel 2015, tra i migranti assistiti da ITaCa meno di una persona ogni cento risultava sieropositiva al virus, ma nel 2017 la percentuale è salita a quasi cinque persone su cento. Nel 2018 il numero si è assestato attorno alle quattro persone. Prestileo ha presentato i dati in occasione del convegno nazionale Let’s Stop HIV dello scorso aprile, rivolto a medici e ricercatori impegnati nella lotta al virus.
I dati analizzati da Prestileo dicono che età, sesso, area di provenienza, storia di pregressa, infezioni sessualmente trasmissibili e condizioni di vita in Italia sono rimasti costanti negli anni. Tranne uno: il tempo di permanenza in Libia. Per ulteriore conferma, il medico ha avviato un’indagine filogenetica del virus. Analizzando le informazioni genetiche che costituiscono l’Hiv, Prestileo vorrebbe capire quale ceppo del virus abbia infettato le persone da lui esaminate. È un procedimento lungo e complesso, il cui risultato non vedrà la luce prima di sei mesi. Questa ricerca, però, gli consentirà di comprendere, definitivamente, se la variante con cui sono stati contagiati era quella «prevalente nel paese d’origine di queste persone, quella libica o quella italiana».
Curare i migranti per tutelare la salute di tutti
«Il miglior modo che abbiamo per tutelare la salute collettiva è farci carico di tutte le persone che sono in difficoltà, specialmente dei gruppi più fragili e marginali che, spesso, sono proprio quelli più a rischio», racconta Giovanni Baglio, dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà, di cui Prestileo è responsabile scientifico per la Sicilia.
Grazie anche al fondamentale lavoro dei mediatori culturali, a Palermo se qualcuno risulta positivo allo screening, riceve una spiegazione dettagliata sulle prospettive di cura e su come evitare di perdere i trattamenti. «Perché se poi vanno a Milano o a Marsiglia devono ricominciare tutto da capo, spendendo una quantità di soldi inutili e con l’aggravio delle complicazioni legate all’interrompere la terapia» commenta Prestileo.
«Non siamo di fronte a un’epidemia montante. Siamo in una fase in cui i tassi delle malattie infettive si stanno riducendo complessivamente, e però l’incidenza a carico degli stranieri rimane più elevata rispetto agli italiani. Quindi noi dobbiamo occuparci della salute dei migranti perché è un loro diritto ma anche nostro interesse, ed entrambe le cose sono sancite dall’articolo 32 della Costituzione. La tutela dell’individuo e quella della collettività vanno sempre considerate assieme».