Non è tutto oro quello che luccica. Ovvero, parlando di scienza: non basta essere pubblicati su riviste prestigiose per essere credibili. Specialmente se poi si viene smentiti pubblicamente da altri gruppi di ricerca e dalla stampa. È quello che è successo a Brian Wansink, professore e direttore del Food and Brand Lab alla Cornell University, da cui ha recentemente annunciato le dimissioni dopo che diversi suoi articoli sono stati ritirati dalla pubblicazione con l’accusa di manomissione dei dati. Quella di Wansink è una vicenda utile per capire come funziona – o non funziona – la ricerca scientifica: l’esigenza di pubblicare tanto e in continuazione, la qualità e la riproducibilità dei risultati, il complicato rapporto col giornalismo e il pubblico.
Brian Wansink, la storia in breve
Dall’altare alla polvere. Brian Wansink ha pubblicato, dagli inizi della sua carriera nei primi anni Novanta, più di 250 articoli. Negli ultimi anni aveva conquistato una certa notorietà, complice l’esplosione dell’interesse per tutto ciò che riguarda il cibo e le diete, per i suoi studi sulle abitudini alimentari. Aveva pubblicato su alcune riviste specializzate, fra cui la prestigiosa Jama (The Journal of American Medical Association) articoli su come diminuire il consumo di cibo usando contenitori di forma e dimensioni diverse, o su come essere un foodie possa migliorare la qualità della dieta. Lavori che, per usare le parole dello stesso Wansink, “go virally big time”, insomma si diffondono alla grande. I guai, per Wansink, cominciano nel 2016, quando lui stesso scrive un post per rispondere a delle critiche che un suo articolo stava ricevendo, attirando l’attenzione di altri ricercatori che sollevano domande sui suoi metodi di indagine scientifica. Nel 2017 è la stessa Cornell University a riprendere quattro vecchi articoli di Wansink trovando “numerosi casi di gestione inappropriata dei dati e dell’analisi statistica”. Il sito Buzzfeed News ha ricostruito la vicenda, svelando il contenuto di alcune mail fra Wansink e diversi collaboratori e intervistando ex-studenti dello scienziato: quello che emerge è un vero e proprio sistema di produzione seriale di articoli e manomissione sistematica dei dati, con lo scopo di ottenere più pubblicazioni scientifiche e visibilità mediatica. Diversi ricercatori, in tutto il mondo, hanno inoltre raccolto una lista di errori contenuti in più di 50 articoli, creando quello che è stato chiamato dossier Wansink: in seguito allo scandalo, almeno 13 lavori sono stati ritirati e più di un’altra dozzina corretti. Epilogo della storia: dopo una nuova e più approfondita analisi di vecchi articoli di Wansink, la Cornell University ha dichiarato di “non poter garantire l’accuratezza scientifica dei risultati” perché non ha accesso ai dati originali. In seguito a quest’annuncio, Jama ha ritirato sei articoli del professore americano, che ha poi annunciato le dimissioni per il prossimo 30 giugno e la sospensione di tutte le sue attività didattiche.
Dati truccati?
Prima le risposte, poi le domande. L’accusa principale mossa al gruppo di Wansink è quella di aver manomesso i dati. In che senso? Pare che il metodo di lavoro al Food and Brand Lab, fosse quello di raccogliere i dati e, solo in secondo momento, cercare di tirarne fuori qualcosa. Nessuna teoria da provare a monte, nessuna ipotesi di partenza se non alcune considerazioni apparentemente intuitive o appetibili per i mass-media. L’articolo veniva costruito ad hoc a posteriori, tirando per i capelli delle correlazioni non proprio cristalline. Dati analizzati in tutti i modi possibili, variabili mischiate in modo che, retroattivamente, portassero a qualche risultato. Nelle scienze sociali, una correlazione viene considerata significativa quando il valore p – un indicatore statistico – è minore di 0.05. Invece, il cosiddettto p hacking, cioè la manomissione del valore p, consiste proprio nello smussare i dati e cercare solo le correlazioni che sembrano funzionare meglio. Questo permette di ottenere valori di p anche molto vicini a zero, cioè ottenere un risultato statisticamente molto rilevante. Il p-hacking è proprio quello che, secondo alcuni scienziati, sembra emergere da alcune ricerche di Wansink. Brian Nosek, psicologo dell’Università della Virginia, che ha guidato il più grande lavoro sulla riproducibilità degli studi in psicologia ha spiegato a Buzzfeed che “l’obiettivo esplicito di questo metodo è quello di usare i dati come uno strumento per tirare fuori qualcosa di interessante, qualsiasi cosa […] questa non è scienza, è storytelling”.
Solo un caso di “cattiva scienza”?
Secondo molti scienziati non è così che dovrebbe funzionare la ricerca. A prima vista, la scienza sembra uscire indebolita da casi come questo, che fra l’altro, non è isolato. Negli ultimi dieci giorni, oltre a Brian Wansink, altri due famosi scienziati americani hanno dovuto rassegnare le dimissioni. Jose Baselga, a capo del Memorial Sloan Kettering Center di New York e autore di centinaia di articoli sulla ricerca contro il cancro, non ha dichiarato di aver ricevuto milioni di dollari dalle aziende farmaceutiche. Una questione di non poco conto, considerato che può condizionare fortemente i risultati di una ricerca. Nell’altro caso, Gilbert Welch, professore di salute pubblica al Dartmouth College, si è dovuto dimettere dopo le accuse di plagio per un articolo pubblicato su una delle maggiori riviste di medicina americana, The New England Journal of Medicine. “La buona notizia è che iniziamo a vedere che alcuni di questi casi diventano pubblici”, ha dichiarato Ivan Oransky, co-fondatore del sito Retraction Watch, un progetto del Centro per l’Integrità Scientifica, che tiene traccia delle ritrattazioni di articoli in migliaia di riviste. Negli anni, l’attenzione è stata concentrata soprattutto sui casi di conflitto d’interesse, specialmente a causa dell’influenza dell’industria farmaceutica. Il caso di Brian Wansink mostra però che ci sono altre forme di conflitto, come quello reputazionale, e sono ugualmente importanti. La ricerca di visibilità e la produzione costante di articoli sono condizioni sulle quali fondare una carriera accademica oltre che un modo per attrarre fondi e investimenti. Brian Nosek sostiene che i ricercatori oggi competono sulla produttività e sulla novità dei risultati, ma che anche i lavori con risultati negativi o che rafforzano scoperte precedenti dovrebbero essere riconosciuti. “Il percorso verso una scienza più trasparente ha acquisito vigore negli ultimi dieci anni”, conclude Nosek, “ma la strada è ancora lunga”.