Le cellule staminali potrebbero rappresentare l’ultima spiaggia per le specie in via di estinzione? Ad oggi nessuno sa rispondere a questa domanda, ma intanto alcuni scienziati si sono già messi al lavoro. Le basi del progetto sono state gettate nel 2006, quando Oliver Ryder, direttore di Genetica del San Diego Zoo Institute for Conservation Research, contattò Jeanne Loring, docente di neurobiologia dello sviluppo presso lo Scripps Research Institute. Il motivo del loro incontro era discutere la possibilità di collezionare le cellule staminali dalle specie animali fortemente minacciate.
Ryder aveva di fatto già messo in piedi il Frozen Zoo, una banca di cellule della pelle (epiteliali) e di altro materiale biologico di oltre 800 specie, e allora non era chiaro se questo materiale potesse essere o meno utile allo scopo. Ma poco dopo, era il 2007, due équipe (quella di James A. Thomson della University of Wisconsin-Medison, e quella di Shinya Yamanaka dell’Università di Tokyo) trovarono il modo di ottenere in laboratorio cellule staminali adulte pluripotenti proprio da quelle epiteliali. Oggi la tecnica per derivare le Ipsc (acronimo di cellule pluripotenti indotte) è ormai ben sviluppata e utilizzata in molti laboratori in tutto il mondo (il metodo si serve di 4 geni che fanno regredire le epiteliali fino allo stadio di staminale, vedi Galileo, “Deja vu staminale” e “Ritornare staminali“).
Già nel 2008 quindi, i team di Ryder e di Loring furono in grado di dare il via a una serie di studi per determinare se la tecnica potesse essere applicata agli animali, allo scopo di preservarli. La prima specie a fare da cavia fu il drillo (Mandrillus leucophaeus), un primate della foresta tropicale pluviale scelto per la relativa vicinanza genetica con la nostra specie e, soprattutto, perché gli esemplari in cattività soffrono frequentemente di diabete. La seconda specie fu il rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni); il motivo è che attualmente vi sono appena 7 esemplari al mondo, due conservati proprio allo Zoo Safari Park di San Diego.
Per oltre un anno, i ricercatori provarono a ottenere le Ipsc usando geni di animali strettamente imparentati con le specie scelte. In realtà, i ricercatori hanno scoperto – con non poco stupore – che a funzionare sono gli stessi 4 geni usati per ricavare le Ipsc umane. Il procedimento, descritto su Nature Methods, è ancora poco efficiente: tanto lavoro e numerosi tentativi per ottenere solo poche cellule staminali. Ma questo non vuol dire che non stia funzionando.
Se e come verranno poi utilizzate queste cellule è un’altra storia. Attualmente le terapie basate sulle cellule staminali sono in una fase preliminare di studio, e non è chiaro come questo strano zoo possa contribuire a salvare le specie. Ciò non toglie che progressi nei campi della riproduzione e delle biotecnologie possano un giorno permetterci di sfruttare il lavoro di Ryder e Loring (preferibilmente prima che l’ultimo rinoceronte bianco scompaia). “La cosa più importante è dare la possibilità ad altre persone di fare qualche altro passo in avanti”, ha infatti commentato Loring. In alcuni centri, per esempio, si sta cercando di differenziare le cellule staminali indotte in spermatozoi e ovociti. Se vi si riuscisse, una possibilità potrebbe essere rappresentata dalla fertilizzazione in vitro per creare un embrione da impiantare poi nell’utero di un animale vivente.
I due scienziati vedono nella loro collezione soprattutto una risorsa di biodiversità. Infatti, se anche i pochi esemplari superstiti si riproducessero in cattività (cosa che comunque non avviene facilmente, come sottolineano i ricercatori), la diversità genetica verrebbe irrimediabilmente persa. Una delle conseguenze – di cui siamo già testimoni – è che la prole nasce sempre meno sana con il passare delle generazioni.
Resta il fatto che prevenire sarebbe meglio (meno costoso e molto più efficace) che curare; ma nel caso dei rinoceronti bianchi e di molte altre specie, le strategie di protezione degli animali e dei loro habitat finora non hanno funzionato.
Riferimento: doi:10.1038/nmeth.1706
Via Wired.it
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