Il cervello distingue tra cibi crudi o cucinati

cibi crudi

Tra cibi crudi e alimenti cucinati o trasformati c’è una bella differenza. Non solo nell’aspetto, ma anche in termini di gusto, valori nutrizionali, effetti sulla salute. Tanto che il nostro cervello sembra considerarli entità differenti. Per riconoscere i cibi crudi, infatti, utilizziamo la corteccia occipitale, dedicata a elaborare informazioni sensoriali come forma, colore o caratteristiche tattili. Mentre nel caso dei cibi trasformati o cotti entra in azione il giro temporale mediale, associato al riconoscimento delle caratteristiche funzionali degli oggetti. Come se per i cibi cotti il riconoscimento si basasse sul processo di trasformazione che hanno subito, i valori nutrizionali o le nostre abitudini nel consumarli. Questa almeno è l’ipotesi formulata dai ricercatori della Sissa di Trieste, in uno studio appena pubblicato sulle pagine di Scientific Reports.

Quanto è importante riconoscere i cibi crudi

“Il cibo è fondamentale nella nostra vita. Per questo è di capitale importanza che le sue caratteristiche principali (è velenoso? È buono? È nutriente?) vengano prontamente riconosciute”, spiega Miriam Vignando, prima autrice dello studio. “A venirci in aiuto in questo caso è la nostra memoria semantica, che è un grande e personale magazzino di informazioni su tutto ciò che sappiamo, incluse le proprietà sensoriali o astratte degli oggetti. È la memoria semantica che ci permette di dare un nome e un significato a ciò che abbiamo incontrato nel corso della nostra esistenza”.

Vivente e non vivente, sensoriale e funzionale

Un modello proposto negli scorsi anni prevede che la memoria semantica sia composta di due parti: quella sensoriale incaricata di identificare il “vivente”, e una parte funzionale, incaricata di identificare il “non vivente”. Ed è partendo da questa impostazione che i ricercatori triestini hanno deciso di scoprire se anche nel caso dei cibi succeda qualcosa del genere.

Cibi crudi o cotti, l’esperimento

“Per dare una risposta alla domanda, abbiamo coinvolto nello studio individui sani e pazienti affetti da diverse patologie neurodegenerative, tutte caratterizzate da un esteso danno nelle parti del cervello associate alla memoria semantica”, racconta Raffaella Rumiati, responsabile della ricerca. Tutti i partecipanti – continua la scienziata – sono stati sottoposti a dei test di riconoscimento in cui venivano presentate loro immagini di cibo, naturale e trasformato, ma anche immagini di oggetti non commestibili, divise tra viventi (ed esempio piante) e non viventi (ad esempio utensili). Utilizzando quindi una tecnica “morfometrica”, definita voxel based morphometry, i ricercatori hanno potuto mettere in relazione i risultati dei test semantici con il volume del cervello, e identificare quindi le aree cerebrali che, se atrofizzate (come nel caso dei pazienti colpiti da patologie neurodegenerative) risultano collegate a peggiori capacità di riconoscimento nell’una, o nell’altra, categoria di cibi studiati.

Le regioni cerebrali che riconoscono il cibo

I risultati hanno confermato che per il riconoscimento di cibi naturali e il “vivente” è cruciale l’integrità della stessa regione cerebrale, la corteccia occipitale laterale, implicata nella memoria semantica sensoriale. Un’altra parte del cervello, chiamata giro temporale mediale, implicata nella memoria semantica funzionale, è coinvolta nel riconoscimento sia di cibi trasformati che per il “non vivente”. “La nostra ipotesi è quindi confermata”, conclude Rumiati. “Ma non è tutto: questa ricerca ci ha infatti permesso di identificare diverse regioni cerebrali che risultano fortemente legate al riconoscimento del cibo, come se esistesse un vero e proprio network di regioni cerebrali responsabile del recupero e dell’integrazione delle informazioni sugli alimenti e che ci rende possibile interagire correttamente con essi. Questo processo sarebbe dunque il risultato dell’azione congiunta di diverse parti del cervello, alcune atte a riconoscere le sue proprietà sensoriali e funzionali, altre a integrarle e a coordinare il comportamento sulla base di esse”.

Riferimenti: Scientific Reports

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