In questi giorni gli alunni della terza classe della scuola secondaria di primo grado (la vecchia scuola media) vengono sottoposti alle prove Invalsi, che concorrono a tutti gli effetti con un voto numerico alla valutazione complessiva degli studenti a fine ciclo. La somministrazione dei test ha provocato molte polemiche, tra gli insegnanti, che li contestano, e il Miur, che li sostiene. Pubblichiamo in anteprima l’opinione di Lucia Orlando, docente di matematica e fisica presso il Liceo classico Pilo Albertelli di Roma, la cui rubrica uscirà sul numero di agosto della rivista Sapere.
I test Invalsi dell’anno scolastico 2010-2011 forse verranno ricordati per aver riacceso (e diffuso) il dibattito sulla valutazione del sistema scolastico nazionale. Per chi non avesse seguito le cronache e i commenti che hanno animato la coda dell’anno scolastico, ricordiamo che i test Invalsi sono prove di matematica e italiano a cui sono sottoposti annualmente gli studenti della II e V classe primaria, della I e III classe della secondaria di I grado e, da quest’anno, anche della II classe della scuola secondaria di II grado. I test sono elaborati dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo d’istruzione e di formazione, ente indipendente di valutazione vigilato dal MIUR. In un campione rappresentativo di scuole, i test sono effettuati alla presenza di ispettori ministeriali. Solo i risultati di queste scuole sono analizzati statisticamente dall’Istituto, per fornire elementi di riflessione sul livello degli apprendimenti degli studenti italiani nelle due discipline portanti. Le altre scuole, quelle non facenti parti del campione, possono usare i risultati nazionali come termine di paragone. 2.200.000 gli studenti coinvolti quest’anno, di cui la metà nella scuola primaria.
Il ministro Gelmini crede molto in queste rilevazioni. Ha addirittura annunciato che dal prossimo anno saranno estese anche all’Esame di Stato e allargate ad altre materie: l’inglese nella III classe della secondaria di I grado e le scienze nella primaria.
Pur essendo, quella dei test, una pratica già avviata da qualche anno, stavolta essa ha suscitato un autentico vespaio di polemiche. In alcune scuole i docenti hanno boicottato le prove, in molti casi è serpeggiato lo scontento. Si sono mescolate ragioni reali e pregiudizi.
Chiarisco subito di essere tra coloro che non si scandalizzano al suono della parola “valutazione”, termine ancora indigesto nella scuola italiana. In Europa, invece, le prime valutazioni delle scuole e dell’apprendimento degli studenti risalgono agli anni Novanta. Anche in Italia va promossa presso le istituzioni pubbliche l’abitudine di rendere conto alla società degli esiti delle attività svolte, ma la politica ha il dovere di gestire al meglio i processi valutativi, con risorse adeguate, chiarezza e trasparenza su scopi e obiettivi.
Tralasciando alcuni aspetti di natura sindacale della polemica che ha travolto i test Invalsi (come quello della retribuzione dei docenti per attività non previste contrattualmente, cioè la correzione delle prove) cerchiamo di analizzare le principali ragioni dello scontento di molti docenti.
Alla confusione ha contribuito anche il MIUR con l’improvvida decisione di far confluire nella sperimentazione della valutazione del sistema scolastico avviata quest’anno anche gli esiti delle prove Invalsi, da un lato alimentando il sospetto di voler legare la valutazione Invalsi alla premialità, cioè di voler usare i risultati dei test per attribuire incentivi economici (ai singoli docenti, al team, a tutta la scuola?) dall’altro lato dando l’impressione di ridurre la valutazione di sistema, un processo complesso e articolato, alla valutazione dei livelli minimi degli apprendimenti, il vero obiettivo dei test Invalsi. L’atteggiamento ambiguo del MIUR (che non ha dissipato con decisione i dubbi sulle finalità dei test di quest’anno) ha favorito interpretazioni d’ogni tipo e lo spargersi di fiumi d’inchiostro.
Cerco di spiegarmi. Quest’anno il MIUR ha avviato una sperimentazione su base volontaria della valutazione dei docenti (77 scuole in alcune province italiane, individuate dopo molti rifiuti, i cui docenti, autocertificando le proprie competenze, si sono proposti per una gratificazione retributiva ad una commissione di colleghi della stessa scuola) ma, accanto a questa, c’è anche una sperimentazione della valutazione del cosiddetto “valore aggiunto” della scuola, per il quale vengono presi in considerazione i risultati dei test Invalsi (in pratica la scuola confronta i risultati dei propri test con quelli del campione della provincia d’appartenenza e cerca di determinare come si siano modificati gli apprendimenti dei propri studenti nel corso del tempo). Valutazione dei singoli docenti e valutazione del valore aggiunto della scuola si sono confusi (e forse non per caso). E’ sembrato che il MIUR si preparasse a selezionare i docenti “più meritevoli” in base (anche) ai risultati dei propri studenti.
Il contesto in cui tutto questo è maturato ha complicato le cose: tagli continui di risorse, tradottisi in erosione progressiva di attività didattiche e servizi (dai viaggi d’istruzione, alla manutenzione delle strutture) riduzioni di orari e curricoli, che hanno generato spesso disservizi per i quali la colpa, secondo il MIUR, è sempre di dirigenti, docenti ed ATA. Per non parlare degli attacchi del premier alla scuola pubblica con i docenti accusati di “inculcare” principi opposti a quelli delle famiglie.
Giovanni Bachelet, componente della Commissione Cultura della Camera, ha parlato di sostanziale mancanza di rispetto tra chi governa e la scuola. Come dargli torto?
Ecco dunque che attorno ai test Invalsi quest’anno si è alzato un gran polverone. Con qualche ragione di merito. Vediamo quale. I test sono strutturati per lo più come quesiti a risposta chiusa, basati sulle Indicazioni Nazionali per i vari gradi di scuola. Se si prendono i test distribuiti quest’anno, per esempio quelli di matematica (rintracciabili presso il sito dell’Invalsi alla voce Servizio nazionale di valutazione 2010-2011) si noterà che essi hanno previsto anche qualche domanda a risposta aperta, ma sulle trenta domande del test per la V classe primaria – per esempio – solo in due casi era richiesto di spiegare il ragionamento fatto per arrivare alla soluzione (per la I classe della secondaria di I grado la richiesta era avanzata in 4 casi su 29 domande).
Il fine dei test, secondo l’Invalsi, è di «offrire ai decisori istituzionali dati attendibili e indicazioni utili per le scelte di governo del sistema di istruzione e formazione e fornire alle scuole un utile e affidabile strumento di conoscenza per riflettere sugli esiti dell’attività di insegnamento/apprendimento». Ma test strutturati come descritto in precedenza cosa possono davvero comunicare sugli “esiti dell’attività di insegnamento/apprendimento”?
Il direttore generale dell’Invalsi, Dino Cristanini, definisce i test «prove oggettive standardizzate» ed in tal senso si esprime anche il ministro, che ne invoca anche la validità scientifica. Se con queste espressioni si intende dire che i test sono il frutto di un attento (seppur perfettibile) lavoro da parte dei ricercatori Invalsi, che affonda la proprie radici nell’esperienza internazionale di vari decenni, niente da dire. Ma se invece l’oggettività e la scientificità vengono assunte come qualità per attribuire un valore assoluto alla valutazione effettuata attraverso i test, non ci siamo proprio.
Il sospetto è che questa concezione stia prevalendo presso i tecnici ministeriali. Tra le molte pubblicazioni rintracciabili sul sito dell’Invalsi, in “Prove Invalsi – Matematica” del matematico Giorgio Bolondi, esperto Invalsi, si legge che l’oggettività che le prove restituirebbero alla valutazione dei docenti sta nel fatto che forniscano dati confrontabili con quelli di un campione. Mi sembra poco per definire oggettivo un test, la cui scelta ha in sé un elemento di soggettività; per di più si capisce il retropensiero dell’autore nella frase immediatamente successiva: «Non dobbiamo dimenticare che nella percezione dei nostri studenti la valutazione è considerata quasi completamente dipendente dall’insegnante, e indipendente dalle reali conoscenze acquisite. L’Invalsi dovrebbe contribuire a riconquistare una credibilità (sic!) complessiva».
Il più accanito critico dell’impostazione che attribuisce valore assoluto alle prove Invalsi in nome della loro scientificità e oggettività è stato il matematico Giorgio Israel, che avendo collaborato con il ministro Gelmini nella definizione di alcuni aspetti delle sue attività di governo (in particolare sulla formazione dei docenti) non è certo imputabile di partigianeria. Israel non sostiene l’inutilità dei test, ma chiede di definirne correttamente l’ambito di utilità. A sostegno di questa posizione fa notare che anche nei paesi anglosassoni di provata tradizione sui sistemi di valutazione c’è un significativo ripensamento della valutazione esclusivamente affidata ai test. Cita Diane Ravitch, consigliera per l’educazione di Bush sr. e di Clinton, che nel suo ultimo libro The death and life of the great American school system denuncia questa ubriacatura da eccesso di fiducia nei test.
«E’ il tipico modernismo in ritardo all’italiana – scrive Israel su Il Giornale del 17 maggio scorso – vera forma di provincialismo: adottare le riforme costruite qualche decennio prima altrove, con un dogmatismo giustificato in nome del nostro ritardo».
Quello che il sistema scolastico può realmente apprendere da questi test prevalentemente a risposta chiusa è davvero poco. In questo Israel ha ragione. Ecco un esempio di test per la IV classe della scuola primaria, da lui citato in Proposte per la valutazione di scuole e insegnanti da cui emerge l’impossibilità di valutare la scelta metodologica fatta dallo studente per arrivare al risultato.
Un sommozzatore scende 8 metri sott’acqua; scende ancora di 4 metri e poi risale di 9; a quanti metri sott’acqua si trova dopo queste manovre?
La domanda può essere riformulata come test a risposta chiusa. Israel fa notare che molti studenti hanno risposto esattamente con procedure diverse: «c’è chi ha semplicemente tradotto il problema in somme e sottrazioni; c’è chi addirittura ha ragionato in termini di numeri negativi, avendo evidentemente acquisito tale conoscenza in altra sede; c’è chi ha invece fatto ricorso a una rappresentazione grafica, del tipo ordinata cartesiana, pur non avendone esplicita consapevolezza, il che è ancor più significativo».
Certo se ci si limita a valutare la correttezza numerica del risultato si può ottenere qualche informazione sul livello delle conoscenze di base in possesso dello studente, ma senza analizzare il procedimento per giungere al risultato, quasi nulla può essere rilevato sulle competenze.
Al più il sistema dei test – dice Israel – ci consente di «verificare se il sistema scolastico forma dei giovani al di sopra di una soglia minima sul piano soprattutto delle conoscenze, molto meno sul piano delle competenze».
Ecco perché i test Invalsi, pur di qualche utilità, non possono essere considerati la panacea a tutti i problemi della valutazione della scuola italiana.
Un altro, non trascurabile, pericolo insito nell’attribuzione di un peso eccessivo alla valutazione tramite test è quello dello stravolgimento della didattica, pur di mettere in condizione gli studenti di superare la prova. Si tratterebbe del cosiddetto “teaching to the test”, più un addestramento che un insegnamento, che all’estero già si affaccia pericolosamente. Una deriva quasi inevitabile se – come nel caso della III classe della secondaria di I grado – i test sono prova d’esame. D’altronde, sempre Israel ha mostrato come dal mondo della citatissima scuola finlandese, che miete primi posti nelle classifiche OCSE PISA, siano state lanciate grida d’allarme per il degrado dell’insegnamento matematico, drammaticamente appiattito sulle esigenze del superamento dei test.
Infine, un’ultima ragione di critica che mi sento di condividere riguarda la partecipazione dei ragazzi portatori di handicap. Attualmente è lasciato ai dirigenti scolastici di decidere sull’opportunità o meno di far eseguire il test ai portatori di handicap. Con la conseguenza, intuibile, ma non accettabile, che molti di loro sono rimasti esclusi. In ogni caso, le prove eventualmente sostenute non vengono valutate nei dati nazionali. Perché le prove non sono pensate per loro.
Se c’è un tratto distintivo del nostro sistema scolastico rispetto a quelli esteri è proprio l’integrazione e l’inclusione dei portatori di handicap. Un sistema di valutazione nazionale deve trovare il modo di valutare anche questi studenti. E su questa strada si deve lavorare. Altrimenti il sospetto di essere davanti a un caso di importazione pedissequa di modelli esteri diverrà sempre più solido.