Che fine fanno i dottori di ricerca?

Il valore della ricerca nella nostra “società della conoscenza” si misura anche con l’impatto economico. Che fine fanno i dottori di ricerca che per anni sono stati finanziati con borse pubbliche? Con quali impieghi ripagano, ed eventualmente ampliano, l’economia locale?
Al di là della classica valutazione tramite misurazione di articoli e brevetti, uno studio statunitense pubblicato su Science risponde al concreto e crescente interesse dell’opinione pubblica e della politica su come l’attività di ricerca finanziata contribuisce all’attività economica.

Dall’analisi di 3197 PhD graduate (dottori di ricerca) finanziati con borse  di ricerca presso le Università di Indiana, Iowa, Michigan, Minnesota, Ohio State, Purdue, Penn State, e Wisconsin  tra il 2009 e il 2011, sono emersi dati confortanti per il pubblico statunitense. Infatti, coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca rimangono in larga percentuale all’università, proseguendo nella ricerca (57.1%), mentre in numero crescente sono assunti nel settore privato dell’industria (38.7%), di cui un 17% presso imprese che fanno ricerca, sviluppo e innovazione, e solo il 4.1% assume incarichi di governo. Inoltre, più del 20% dei neo-dottori di ricerca rimane nello stato in cui operava, e circa il 13% entro 80 Km dalle proprie università. Se nell’industria gli stipendi sono mediamente più elevati di quelli all’università, in tutti i settori di lavoro, i campi con i rendimenti maggiori sono matematica, informatica e ingegneria. Mentre i guadagni dei PhD in biologia sono bassi, probabilmente per il fatto che diventano ricercatori post-dottorato.

Insomma, verrebbe da dire, la ricerca finanziata negli Usa non va in fumo. E il quadro conferma la massima del fisico Robert Oppenheimer sul fatto che “avvolgere la conoscenza in una persona è il modo migliore di far circolare informazioni”. D’altronde, come indica il report 2013 “Education at glance” dell’OECD, anche l’Europa riconosce che “i dottorati di ricerca giocano un ruolo cruciale nel guidare l’innovazione e la crescita economica. […] Le aziende sono attratte dai Paesi che fanno di questo livello di formazione e ricerca una opportunità̀ facilmente raggiungibile; allo stesso tempo gli individui che raggiungono questo livello di formazione beneficiano generalmente di salari più alti e di un tasso di occupazione più elevato”.

Affermazioni confermate dall’ultimo report OECD (2015) che, infatti, vede una percentuale molto bassa (5.3%) di persone altamente qualificate (con PhD) non impiegate, a fronte di un tasso di inoccupazione del 13.7% tra coloro che hanno una bassa istruzione. In Italia, secondo stime Istat del 2014, a quattro anni dal conseguimento del titolo, la condizione occupazionale varia in base all’ambito disciplinare in cui è stato conseguito il dottorato. I dottori nelle Scienze matematiche e informatiche e nell’Ingegneria industriale e dell’informazione presentano le percentuali di occupazione più elevate (oltre il 97% a sei anni dal dottorato e oltre il 95% a quattro anni). Viceversa, le percentuali più basse si riscontrano tra i dottori nelle Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche (intorno all’88%) e nelle Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, limitatamente alla coorte di dottori più recente (85,2%). L’87,0% dei dottori occupati del 2010 svolgono una professione consona al livello di istruzione conseguito, perché impiegato nella ricerca tramite borse di studio, assegni di ricerca, contratti a progetto, prestazioni occasionali. Tutti impieghi a termine che abbassano il grado di soddisfazione sulla propria condizione professionale, stimata in 7 punti su 10. Drammatica l’assenza dell’industria e in particolare dei settori privati che investono in sviluppo e innovazione. Una situazione che, di fatto, condanna l’Università a dei livelli insostenibili di assorbimento delle risorse. Secondo il working paper di Almalaurea: “l’espansione del dottorato di ricerca in Italia sembra caratterizzata da luci e ombre. In media, i dottori svolgono lavori più coerenti con un titolo terziario, ma si trovano più spesso in una situazione occupazionale instabile”. Questo quadro si traduce nel fatto che un PhD ne nostro paese è spesso un laureato un po’ più vecchio che non incide molto nell’economia locale. Anzi, crescendo la percentuale di dottori di ricerca che vivono stabilmente all’estero (quasi il 13% a oggi secondo l’Istat), lo Stato d’origine che ha investito in ricerca perde valore.

Riferimenti: Science

Credits immagine: enceladus79/Flickr CC

3 Commenti

  1. Il Dottorato di Ricerca dovrebbe preparare i futuri Ricercatori (carriera Docenti Univ.,CNR,Cnern , Industria che fa ricerca et similia) quindi dovrebbe essere a numero c hiuso e programmato in modo serio e non fare ogni anno todos caballeros creando così degli sbandati, dei quali solo i carrierati per natura e non per destinazione godranno di un posto…..al sole., mentre gli altri avranno forse le briciole.

  2. ” un PhD ne nostro paese è spesso un laureato un po’ più vecchio che non incide molto nell’economia locale “.
    niente di più esatto almeno per quello che mi riguarda :
    54 anni e PhD a spasso.
    Saluti e scusate lo sfogo.

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