Siamo alle battute finali. Dopo circa 15 anni di discussione la normativa europea in materia di responsabilità ambientale è stata stilata e nel giro di poche settimane sarà formalmente approvata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dei ministri. È passata la linea del “chi inquina paga”: in caso di inquinamento ambientale saranno le aziende che lo hanno procurato a dover risarcire la comunità del danno procurato. Dal momento della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale europea gli Stati membri avranno tre anni per accogliere la normativa con leggi nazionali. La linea dura non è passata invece in tema di copertura assicurativa: a causa delle resistenze delle lobby industriali, infatti, la polizza è per ora facoltativa. Sarà la Commissione, nel 2010, in base all’esperienza accumulata, a decidere se è il caso di passare a forme di assicurazione obbligatoria. Secondo la norma, per “inquinamento ambientale” si intende ogni forma di danno agli animali, alle piante, all’habitat naturale, alle risorse idriche e al terreno che possa causare un pericolo per la salute umana. A essere chiamate in causa, quindi, sono soprattutto le industrie pesanti, come quelle siderurgiche, metallurgiche, chimiche e più in generale, tutte le attività che usano discariche o inceneritori. Come ci spiega Margot Wallström, Commissario Europeo all’Ambiente “la direttiva prevede due regimi di responsabilità: il primo si applica a quelle attività a rischio o potenzialmente a rischio, come le operazioni di scarto, le attività industriali e agricole, la produzione e l’uso di sostanze chimiche e il trasporto, l’uso e il rilascio nell’ambiente di organismi geneticamente modificati”. In base a questo primo regime, un operatore può essere responsabile anche se non ha commesso nessuna mancanza. “Il secondo regime di responsabilità comprende le specie protette e l’habitat naturale e si applica a tutte le attività professionali, ma l’industria in questione è considerata responsabile solo se ha effettivamente colpa o è negligente in materia di sicurezza ambientale”, continua il Commissario. In entrambi i casi, comunque, chi inquina deve pagare. Attraverso la decontaminazione del suolo, per esempio, fino a che non siano eliminati i rischi per la salute umana. E nel caso di danni alla biodiversità, le autorità di ogni paese possono decidere quali misure deve prendere il responsabile dell’inquinamento. “Saranno loro a dover garantire che gli operatori responsabili di danno ambientale prendano le necessarie misure preventive e finanziarie”, spiega il commissario. Una volta adottata la direttiva, infatti, ogni Stato membro avrà tre anni per trasformarla in legge nazionale e decidere le competenze dei vari livelli istituzionali. In Italia, considerando la devoluzione dei poteri, saranno la Regione e i Comuni a controllare e a valutare il danno ambientale da mettere a carico alle aziende. Inoltre, anche i gruppi di pubblico interesse, come le organizzazioni non governative, potranno richiedere un intervento delle autorità o fare ricorso in tribunale contro le decisioni delle stesse. Ma questo pur importante passaggio non è bastato ad accontentare gli ambientalisti. “Il campo di applicazione della direttiva è limitato, la lista delle attività pericolose è arbitraria, ne restano fuori per esempio quelle minerarie che hanno dato luogo negli ultimi anni a gravi incidenti come quello del parco della Doniana nel sud della Spagna” dice Rosanna Miccichè di Greenpeace, “Inoltre il regime di responsabilità prevede delle eccezioni, cioè chi inquina è esentato dal pagare i danni nel caso in cui il danno sia stato causato da un’attività autorizzata, e questo annullerebbe lo spirito della direttiva”.Ma c’è anche un altro aspetto controverso. Per mesi i legislatori hanno discusso sull’opportunità di spingere le industrie a sottoscrivere polizze assicurative di garanzia per “danno ecologico”, come si fa per coprire le spese in caso di incendio. “Le industrie non hanno ancora sviluppato polizze che coprono adeguatamente il danno ecologico, in parte perché l’informazione sugli incidenti e sui costi di riparazione non è disponibile a sufficienza”, spiega la Wallström, “la situazione potrebbe cambiare con l’adozione della direttiva e con una maggiore informazione sui danni e sui costi ambientali”. Ma secondo Rosanna Micicchè la creazione di polizze e di altri strumenti finanziari, come fondi o fideiussioni, che dotassero di capitale sufficiente le aziende in caso di danno, sarebbe stato un elemento importante. “Forse si è temuto che il mercato delle polizze non fosse abbastanza sviluppato, in ogni caso la decisione di non rendere obbligatori gli strumenti assicurativi ha solo rinviato il problema”, conclude l’ambientalista.