Oggi si celebra in tutto il mondo la giornata internazionale del rifugiato, istituita nel 2001 e dedicata ad accrescere la consapevolezza su questo drammatico problema. La data, il 20 giugno, non è casuale: ricorda infatti l’anniversario dalla Convenzione delle Nazioni Unite che ha fornito la definizione e i diritti del rifugiato e le responsabilità delle nazioni nel garantire l’asilo. Quando è stata istituita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel 1948, il cambiamento climatico era però lontano dall’immaginario collettivo, e da quello dei decisori politici. Così per la Convenzione dell’ONU il rifugiato scappa da guerre e persecuzioni, da discriminazioni politiche, religiose, razziali o di nazionalità. Ma la Convenzione non contempla le vittime dei disastri ambientali (dove per vittime s’intendono i sopravvissuti).
Questo significa che conosciamo il nome e il cognome dei rifugiati politici, quindi anche il loro numero, ma non conosciamo, né possiamo calcolare il numero dei migranti forzati a causa di sconvolgimenti ambientali. Di fatto, non li possiamo neanche “chiamare” perché non hanno un nome riconosciuto.
Sin dagli anni Settanta alcuni esponenti del mondo scientifico hanno cercato di dare un’identità al fenomeno. Dopo i disastri di Chernobyl e di Bophal, in India, il ricercatore egiziano Essam El-Hinnawi ha proposto il termine di environmental refugee per indicare chi aveva dovuto lasciare la propria casa. Ma depoliticizzare la causa della migrazione consentirebbe agli Stati di derogare all’obbligo di fornire asilo, così la comunità internazionale ha sollevato varie polemiche.
L’assenza di una definizione univoca e riconosciuta a livello internazionale non è un problema banale. Significa che milioni di persone non hanno uno stato giuridico riconosciuto, quindi non possono ricevere protezione internazionale. Gli Stati non danno loro asilo e le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite non se ne possono occupare.
È difficile inoltre isolare il fattore ambientale dalle altre cause delle migrazioni: questa è una delle ragioni che divide la comunità internazionale. Le attuali situazioni di conflitto, infatti, mostrano scenari complessi. La crescita demografica e industriale e l’inquinamento hanno reso inaccessibili fonti primarie di sopravvivenza come l’aria, l’acqua o il cibo. Così nascono guerre per le risorse, che derivano da problemi ambientali e li inaspriscono. Le catastrofi improvvise sono spesso causate da cambiamenti che insorgono in modo lento e invisibile perché il nostro pianeta è un sistema complesso e integrato, in cui il locale agisce sul globale anche ad ampie distanze. I processi geofisici e biologici sono connessi. Alterarne uno significa minacciare la stabilità di tutti gli altri, con rischi imprevedibili sull’equilibrio complessivo del pianeta.
Non è un caso che la grande maggioranza degli sfollati appartenga ai paesi più poveri, dove gli effetti delle catastrofi sono più gravi. Questo accade anche per assenza di governance. Se mancano i piani di emergenza, le politiche di prevenzione e di riduzione del rischio, le persone sono più vulnerabili. Il fattore ambientale si mescola necessariamente ad altri fattori di tipo sociale, economico, politico e demografico e diventa anche una questione di disuguaglianza.
Secondo il team di ricercatori di Stoccolma guidato da Johan Rockström, i danni indotti dall’uomo su clima, biodiversità, alterazione dei cicli di azoto e fosforo e perdita di foreste sono già oltre la soglia critica. Gli effetti del cambiamento climatico sono, a loro volta, la causa delle catastrofi che rendono inospitali le terre e le previsioni per il futuro non sono rassicuranti. La stima più accreditata è quella dello scienziato Norman Mayer, che prevede circa 200 milioni di climate refugees entro il 2050. Un numero che denota un problema nuovo, dove milioni di persone non possono restare nelle loro terre e non possono migrare perché non hanno un’identità.