Certamente non poteva esserci studio più attuale di questo. Mentre in Ucraina imperversa la guerra, un’équipe di ricercatori dello Eth di Zurigo, in Svizzera, del Peace Research Institute Oslo, in Norvegia, e della Uppsala University, in Svezia, ha investigato quali sono le azioni (e le condizioni) con le quali due parti in conflitto riescono ad arrivare alla pace. E anche, e soprattutto, perché decidono di farlo. I risultati della loro ricerca sono stati pubblicati in una serie di quattro articoli sulla rivista Journal of Conflict Resolution.
La prima azione concreta verso la stipula di una pace, dicono gli autori (che in realtà si sono concentrati sulle guerre civili, ma il discorso resta simile anche per i conflitti tra Paesi diversi) è il cessate il fuoco. Un provvedimento temporaneo, che non ferma la guerra né ne risolve i problemi alla base, ma che certamente rappresenta una boccata d’aria importante per militari e civili. Ma come e quando si arriva al cessate il fuoco, e perché a un certo punto le parti in conflitto decidono di posare le armi? Per comprenderlo, i ricercatori hanno raccolto i dati relativi ai cessate il fuoco in 109 differenti guerre civili avvenute in 66 paesi diversi tra il 1989 e il 2020, per un totale di oltre duemila tregue (sono state scelte le guerre civili perché molto più comuni nel periodo considerato rispetto a quelle tra paesi diversi).
Qualche dato, anzitutto. In quasi tutte le guerre civili esaminate le parti in conflitto sono arrivate, prima o dopo, alla decisione di cessare il fuoco. Le cinque nazioni in cui la cessazione delle ostilità si verificata più frequentemente sono state il Sudan, l’India, le Filippine, la Siria e Israele. L’analisi ha mostrato, poco sorprendentemente, che le parti in conflitto sono più propense a proporre (e accettare) il cessate il fuoco in momenti in cui le azioni belliche sono particolarmente cruente e sanguinose e/o quando gli attacchi provocano un numero di morti tra i civili superiore alla media. Nel sud del Sudan, per esempio, le fazioni in guerra hanno firmato un accordo di cessate il fuoco a giugno 2018, dopo il periodo di ostilità più sanguinoso dei dodici mesi precedenti.
Ma ci sono anche altri fattori, di tipo psicologico-strategico: gli scienziati hanno infatti osservato che molti cessate il fuoco avvengono durante il primo mese di guerra, un momento in cui le parti in conflitto cercano di “studiarsi” e capire se hanno le forze per combattere e vincere la guerra e se l’avversario fa sul serio. Purtroppo, nei casi in cui non avviene questo cessate il fuoco “preliminare”, bisogna attendere quattro anni, in media, perché torni a salire la probabilità che se ne verifichi un altro.
C’è poi una componente politica: i ricercatori hanno mostrato che un colpo di stato o un cambio di governo aumentano la possibilità di un cessate il fuoco. “L’elezione di un nuovo capo del governo”, ha commentato Govinda Clayton, ricercatore al Center for Security Studies (CSS) dello Eth e co-autore dello studio, “mostra che i cittadini non sono soddisfatti della situazione politica precedente. Il che rende più percorribile, per il nuovo leader, cercare un avvicinamento con il nemico”. È quello che è successo, per esempio, in Colombia, quando il nuovo presidente Gustavo Petro, eletto ad agosto 2022, ha annunciato tra i primi provvedimenti quello di negoziare un cessate il fuoco con tutti i gruppi armati del paese. Questo effetto, però, specificano ancora gli autori del lavoro, svanisce più o meno dopo un anno, insieme alla sensazione di “novità” che accompagna i cambi al vertice.
Al quando si intreccia il perché: l’analisi degli scienziati ha mostrato che le parti in conflitto sono più propense ad abbassare le armi quando c’è una giustificazione “politica” per farlo, come la proposta di un mediatore, una festività religiosa, la presa di posizione di una autorità (come è avvenuto a El Salvador, dove il Farabundo Martí National Liberation Front ha cessato il fuoco dopo un appello dell’allora segretario generale delle Nazioni Unite, o in Afghanistan, dove le ostilità cessano regolarmente quando si celebra la fine del Ramadan). Un altro fattore, più collegato alla discussione politica di questi tempi, riguarda gli equilibri in campo e l’ingresso, più o meno esplicito, di altri attori nel conflitto: “L’invio di truppe o di armi e gli aiuti economici”, dice ancora Clayton, “aiutano lo stato a sostenere i costi della guerra per lunghi periodi di tempo”, affermazione suffragata dall’osservazione che i cessate il fuoco sono meno probabili durante periodi in cui lo stato che sta cercando di domare i gruppi ribelli interni è foraggiato da altri stati o organizzazioni.
È abbastanza immediato, e corretto, supporre che il fine ultimo di chi propone e accetta un cessate il fuoco sia di arrivare alla pace. E infatti diversi studi hanno già acclarato la poco sorprendente funzione “pacificatrice” delle tregue; nel loro lavoro, però, Clayton e colleghi hanno fatto un passo avanti, individuando altre tre ragioni che spingono le parti in conflitto a deporre le armi, se pure temporaneamente. Uno: i cessate il fuoco sono spesso usati per conseguire obiettivi militari (o politici) incompatibili con un prosieguo del conflitto, come per esempio riarmarsi o consolidare il controllo territoriale su un’area. Due: le ragioni umanitarie, tra cui per esempio il triste compito di recuperare i cadaveri dai campi di battaglia. Tre: una migliore “gestione” del conflitto: “In questi casi”, conclude Clayton, “l’obiettivo è di contenere gli effetti devastanti della violenza senza però che le parti si avvicinino alla pace”.
Riferimenti: Journal of Conflict Resolution
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