Come la Cina cancella il Tibet

Il problema dei diritti umani violati in Tibet dal regime comunista cinese è storia tanto antica quanto irrisolta. Ma forse per l’etnia tibetana e per le altre minoranze etniche si apre qualche spiraglio. L’occasione per sperare in un allentamento dell’oppressione cinese sulle minoranze potrebbe venire dall’incontro tra Bill Clinton e Jiang Zemin, che avverrà a Washington il 29 e il 30 ottobre. Parleranno d’affari, i due capi di Stato, ma non è escluso che Clinton inviti la Cina a rivedere la sua politica rispetto ai diritti umani.

Il Tibet era uno Stato sovrano, governato pacificamente dal Dalai Lama fino al 1949, fino a quando, cioè, l’esercito della Repubblica popolare cinese, contravvenendo alle norme del diritto internazionale, lo invase e occupò con la forza. Da allora Pechino ha cercato con tutti i mezzi di annientare la religione e la cultura di quella popolazione. Nel tentativo di sinizzare completamente la regione, la Cina ha distrutto più di 6000 monasteri e templi buddisti e tiene costantemente sotto controllo le attività dei monaci e dei loro maestri.

Oggi, migliaia di uomini e donne tibetane hanno preferito la via dell’esilio. Molti sono tenuti prigionieri per attività anti-statali e sottoposti a torture in carcere. L’educazione scolastica dei bambini cinesi è di gran lunga superiore a quella che riceve l’infanzia tibetana, che, tra l’altro, non ha la possibilità di studiare la propria lingua. L’assistenza medica per i coloni è migliore di quella garantita alla popolazione originaria del “paese delle nevi”. Ma quello che preoccupa e scandalizza di più è la sottile politica (avviata nel 1983) di trasferimento di consistenti gruppi di coloni cinesi in Tibet. Lo scopo è quello di “diluire” numericamente la popolazione locale attraverso una massiccia e costante immigrazione. L’obiettivo è insomma un vero e proprio genocidio culturale, meno eclatante degli stermini di massa, ma non meno crudele. E’ di fatto un’operazione di pulizia etnica, che rischia di far scomparire un popolo, la sua storia e la sua cultura.

A questa imponente opera di colonizzazione vanno naturalmente sommati gli effetti della politica demografica del “numero chiuso”, adottata sin dagli anni Settanta e solo recentemente – è notizia degli ultimi giorni – ripensata (sembrerebbe) dal governo di Pechino. La legge cinese, valida su tutto il territorio della Repubblica popolare, prevede un solo figlio per coppia, salvo casi molto particolari. Sulla carta ogni donna tibetana – in quanto appartenente a una minoranza etnica – è autorizzata ad avere due figli. Ma di fatto il secondogenito è fortemente scoraggiato. Secondo molte organizzazioni non governative la pratica degli aborti e delle sterilizzazioni forzate è piuttosto comune in Tibet. E quando lo stato non interviene sulle donne incinte lo fa, e duramente, sul bambino “illegale”, che non avrà mai gli stessi diritti degli altri.

Questo rigidissimo sistema di controllo delle nascite, che è già un sopruso per le donne, gli uomini e i bambini cinesi, lo è a maggior ragione per i tibetani, che ormai rappresentano una minoranza in patria. Attualmente, infatti, i cinesi “Han” residenti nella regione sono circa 7 milioni: un milione in più rispetto ai tibetani.

Numerose organizzazioni per i diritti civili manifesteranno a Washington durante il vertice Clinton-Zemin per richiamare l’attenzione del mondo e del governo di Pechino sui diritti umani violati in Cina. In Italia l’Organizzazione non governativa Partito radicale transnazionale ha annunciato una veglia per la sera del 29 ottobre davanti ai cancelli dell’Ambasciata americana.

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