“Oggi non esiste una cultura della morte, non si comprende o non si vuol comprendere che la morte è un fatto biologico, che essa rientra nel grande processo biologico al quale apparteniamo, insieme agli animali e alle piante”. Parole di Umberto Veronesi, ministro della Sanità, pronunciate all’apertura del VII Congresso europeo della Società di cure palliative, tenutosi a Palermo dal 1 al 5 aprile scorsi. Un congresso dove non si è celebrata nessuna scoperta scientifica, ma si è proposta una nuova cultura: offrire la migliore qualità della vita possibile ai morenti. “E’ una medicina diversa”, prosegue Veronesi, “che si attiva quando quella terapeutica ha fallito”. Perché la pratica medica moderna cura sempre di più, ma guarisce molto di meno. Ad ascoltare il ministro, 1800 esperti tra medici, infermieri, volontari, psicologi, assistenti sociali e spirituali, esperti di bioetica. Una platea che ha reso queste giornate realmente fruttuose: pochi i “baroni” presenti, molti gli operatori che si sono confrontati sull’esperienza concreta. Da quella scandinava e britannica, dove da anni il morente è seguito fino agli ultimi istanti, a quella spagnola, francese, greca e italiana ancora tutta da costruire.
Si sono dati appuntamento in tanti, quindi, e tutti hanno denunciato una triste realtà: “il morente rimane nudo, non ha nulla accanto a sé, se non le lacrime di qualche familiare”, come ha spiegato Giorgio Trizzino, presidente della Società italiana di cure palliative. Eppure la morte è ancora vita. “L’ultimo atto che tutti hanno il diritto di vivere con dignità”, sottolinea Vittorio Ventafridda, fondatore delle Società italiana ed europea nonché uno dei primi in Italia a occuparsi di cure palliative. Dal capoluogo siciliano viene lanciato prima di tutto un messaggio contro il dolore, la sofferenza fisica e psicologica. “Oggi il malato terminale è spesso considerato un ingombro”, ha aggiunto Veronesi, “tenerlo in casa comporta difficoltà pratiche dalle quali anche il familiare più caritatevole non può prescindere. E anche il medico è inadeguato a questo compito e l’ospedale è mal disposto verso questo malato, che considera presenza scomoda e inutile”. Già perché il morente non serve a nessuno né dal punto di visto scientifico, né da quello dell’epidemiologia. L’ospedale infatti vuole tenere basse le cifre della mortalità perché portano cattiva fama e preferisce dati che lo connotino come centro di eccellenza.
Ecco allora la proposta del Ministero. Finanziamenti (400 miliardi di lire in tre anni) per far sorgere strutture sanitarie specializzate (hospice) in ogni Regione, messa a punto del progetto “ospedale senza dolore” per ridurre la sofferenza, soprattutto nei malati cronici, all’interno dei nostri ospedali, istituzione di programmi universitari di formazione in cure palliative. Infine è allo studio la promozione di un progetto-obiettivo che indica il modello assistenziale specifico su tutto il territorio: un coordinamento fra ospedale, hospice e casa, per garantire una continuità delle cure e una assistenza anche alle famiglie. Misure che si aggiungono a quella contro il dolore già presa da Veronesi con la liberalizzazione nell’uso di farmaci oppioidi.
Come la misurazione della febbre e della pressione, anche il dolore quindi entrerà in cartella clinica così da valutarne l’intensità e combatterlo con più attenzione. Si utilizzerà un punteggio da 1 a 10 secondo particolari parametri oggettivi e soggettivi. A questo proposito a Palermo sono state presentate anche nuove tecniche, già diffuse in Inghilterra e in Olanda: il lecca-lecca antidolore, che contiene una sostanza (fentanil citrato) che nel giro di cinque minuti solleva il malato dal dolore acuto, e una penna, simile a quella con l’insulina per i diabetici, che contiene una soluzione altamente concentrata di farmaci oppioidi che agiscono in pochi minuti. L’urgenza di lenire il dolore dei malati in fase terminale è stata sottolineata anche da una ricerca dell’Università di Utrecht che ha valutato le ragioni delle richieste di eutanasia di un centinaio di malati di tumore. Nel 44 per cento dei casi la richiesta era dettata “dall’inutilità della sofferenza e dall’assenza di speranza”. Nel 9 per cento dei casi i malati chiedevano l’eutanasia per avere una morte dignitosa, nel 7 la richiesta era per il dolore insopportabile.
La recente disposizione italiana a favore della somministrazione di farmaci oppiacei è da questo punto di vista un enorme passo avanti, ma mancano ancora i nuovi ricettari dove i medici possano prescriverli. “Il ritardo”, ha detto Sebastiano Mercadante, coordinatore scientifico della Società italiana di cure palliative, “è dovuto alla mancanza di una circolare applicativa del ministero della Sanità che spieghi come devono essere fatti questi ricettari”. E proprio la complessità di questi è stato finora un alibi per molti medici per non prescrivere farmaci oppiacei per i malati terminali. Attualmente sono 10 i principi attivi prescrivibili, tutti in fascia A (tra questi, morfina, metadone, cerotto al Fentanil), a questi si aggiungono le formulazioni galeniche, preparate dal farmacista. La maggiore disponibilità e facilità di acquisto di queste specialità farmaceutiche permetterà ai malati terminali di vivere fino all’ultimo con dignità.