La storia in molti la conosceranno già. Un imprenditore veneto torna dalla Serbia malato di Covid-19, si dedica ai fatti propri per un paio di giorni (un bel miscuglio di sacro e profano stando alle indiscrezioni, tra visite a Medjugorje e incontri clandestini con una prostituta) e infine sviluppa i sintomi della malattia. La febbre a 38 non lo ferma, e fa in tempo a recarsi prima ad un affollato funerale e quindi a una festa di compleanno (anche qui, una settimana all’insegna delle antitesi) prima di cedere al malessere e recarsi al pronto soccorso. Visita, tampone positivo, e si parte in ambulanza per l’ospedale di Vicenza, dove i medici propongono immediatamente il ricovero. Il problema è che l’imprenditore non collabora: firma la dimissione volontaria, torna a casa e continua con la sua vita quasi come nulla fosse. Alla fine l’intervento del sindaco lo convince a collaborare, fornisce la lista dei contatti dei giorni precedenti e accetta il ricovero, che a questo punto ormai porta diretto in terapia intensiva. Troppo tardi, però. Troppo poco, visto che il numero di persone in isolamento cautelare legate al cluster vicentino raggiunge quota 117. Vedendo salire l’indice dei contagi (il fatidico Rt) Luca Zaia non ci sta, e in conferenza stampa, infuriato, propone di inasprire le regole e di utilizzare il tso per chi rifiuta il ricovero per Covid-19. A fargli eco, un paio di giorni dopo, è il ministro della Salute, Roberto Speranza, che annuncia di stare valutando l’ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori nei casi in cui “una persona debba curarsi e non lo fa”. Un’ipotesi sensata? Vediamo.
Cos’è il Tso?
Iniziamo dalle definizioni. Per Trattamento sanitario obbligatorio si intende un intervento coercitivo dell’autorità che impone a un cittadino di sottoporsi a una qualche procedura medica. Una possibilità normata dalla legge 833 del 1978 (la legge che istituisce il servizio sanitario nazionale) in cui viene chiarito quando e come è possibile aggirare l’articolo 32 della Costituzione, che sancisce invece il diritto a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la proprio volontà, se non, appunto, per disposizione di legge. Il Tso, insomma, nasce per dare una cornice legale alle situazioni in cui ci si trova nella necessità di imporre una procedura medica a un cittadino che si dichiari contrario. Quali sono? La più nota e più ovvia riguarda la salute mentale: in un momento di crisi in cui la persona è pericolosa per sé e per gli altri e viene considerata non in possesso della capacità di intendere e di volere (altrimenti, ovviamente, il problema si risolverebbe con l’arresto) è possibile ricoverarla e somministrare farmaci anche se non fosse d’accordo. Questo su disposizione del sindaco e per un periodo di tempo limitato.
Non solo problemi psichiatrici
Anche se la malattia mentale è il caso più comune, non è l’unico stabilito dalla legge 833 del 1978. L’articolo 33 estende la possibilità di trattamento sanitario obbligatorio a tutti i casi espressamente previsti dalle leggi dello Stato. Capire quali siano non è facile, perché la risposta è nascosta in una montagna di codici, leggi uniche, circolari del ministero della Salute, regi decreti mai abrogati. La lista più completa che si trova sulla rete parla di malattie infettive, malattie veneree in fase contagiosa, vittime di infortunio sul lavoro e malattie professionali, infermità che danno diritto a inabilità pensionabile, obblighi vaccinali.
Si tratta di casi in cui è comprensibile l’obbligatorietà della cura: per evitare la trasmissione del patogeno (come nel caso delle malattie veneree, difficilmente contenibili se non curando il paziente), o perché il peggioramento dello stato di salute comporta un aumento di spesa per le casse dello stato (infortuni sul lavoro, invalidità, ecc…). Nel caso delle malattie infettive come Covid, la situazione è diversa: la malattia fa il suo corso nel giro di settimane o mesi, e la cura in questo senso non diminuisce il rischio di diffondere il virus. Per questo motivo, l’idea di utilizzare il Tso per il ricovero coatto dei pazienti Covid ha suscitato da subito diverse critiche.
Il Tso non serve
“La legge del 1978 si applica a tutte le situazioni in cui una persona rigetta le cure, ma è pensata espressamente per le malattie mentali, in cui il ricovero e la somministrazione di farmaci aiutano ad evitare che il paziente possa fare del male a sé stesso o ad altri”, spiega a Wired Andrea Monti, professore incaricato di diritto dell’ordine e della sicurezza pubblica dell’università di Chieti-Pescara. “Nel caso di Covid, l’ospedalizzazione è riservata solamente ai casi che lo richiedono basandosi su presupposti clinici, e quindi non potrebbe che essere utilizzato per imporre l’isolamento domiciliare coatto indifferenziato. Una misura che però risulterebbe difficile da applicare, non potendo sorvegliare a casa propria un numero così elevato di persone, e che al momento potrebbe comunque essere effettuata basandosi sul testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”. Continua Monti: “Il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, una legge mai abrogata che risale ai tempi del fascismo, dà ai prefetti ampi poteri in materia di pubblica sicurezza e sanità pubblica, ma, come una sorta di segreto di Pulcinella, si preferisce non utilizzarlo per il cambio di sensibilità politica sopravvenuto negli scorsi decenni”.
Mettere un poliziotto alla porta di ogni positivo d’Italia, insomma, non sembra possibile. Né è pensabile ricoverare tutti i malati (è stato anzi uno dei grandi errori che hanno peggiorato la situazione nelle prime settimane di epidemia), o sottoporli all’obbligo di cure che non diminuiscono in alcun modo il rischio di ulteriori contagi. Al contempo, portare in mano a sindaci e governatori ulteriori poteri di limitazione delle libertà personali (pratica ormai sdoganata durante gli scorsi mesi di pandemia) espone a diversi pericoli. Sia rispetto all’uniformità nell’applicazione delle leggi sul territorio italiano, col rischio che a Roma i pazienti stiano a casa, mentre a Milano si decida di rinchiuderli sotto sorveglianza in un albergo sanitario. Sia per la possibilità che l’applicazione di norme probabilmente chiare solamente sulla carta porti a distorsioni e abusi nella loro applicazione. Errori (fatti magari in buona fede) che di fronte a una platea vasta come quella dei pazienti Covid crescerebbero in modo esponenziale, e farebbero inevitabilmente schizzare alle stelle i ricorsi all’autorità giudiziaria.
Cosa fare allora?
Nonostante le dichiarazioni del ministro della Salute Speranza (che ha tenuto a ricordare che gli italiani si stanno comportando bene di fronte a questa pandemia), è chiaro che esiste realmente un problema riguardo al controllo dell’isolamento fiduciario per i tanti pazienti positivi ancora presenti in tutta la penisola. “Con il decreto dello scorso 16 maggio l’inosservanza della quarantena da parte delle persone positive al virus è punita con l’arresto da 3 a 18 mesi, ma si tratta di una misura inefficace, poco più di uno spaventapasseri”, assicura Monti. “L’effetto deterrente della pena è illusorio, l’illecito non prevede la custodia cautelare, e con una pena massima di 18 mesi tra attenuanti, condizionale, sconti di pena e patteggiamenti, nessun trasgressore vedrà mai la galera a meno che non siano stati commessi anche altri reati più gravi”. E in ogni caso la pena non sarebbe immediatamente esecutiva se non si impone anche la carcerazione preventiva. Insomma, continua Monti: “Anche se lo fosse, come detto, ci sarebbero serie difficoltà applicative. Scontiamo le decisioni prese negli scorsi mesi nella risposta alla pandemia, cioè di aver privilegiato la componente sanitaria senza bilanciarla con quella relativa alla pubblica sicurezza. Fra le varie misure adottate in Cina le persone in quarantena venivano controllate attraverso sensori posti sulla porta di casa, che permettevano di verificare che uscissero di casa unicamente per prelevare il cibo consegnatogli. Forse, nel rispetto dei diritti individuali, l’utilizzo di simili sistemi di sorveglianza avrebbe potuto rivelarsi utile anche qui da noi”.
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