Porti, tunnel e ponti, barriere artificiali, piattaforme petrolifere, parchi eolici, infrastrutture per l’acquacoltura e chi più ne ha più ne metta: le attività antropiche occupano un’area di oceano pari a circa 2 milioni di chilometri quadrati, ovvero più o meno sei volte l’Italia. E’ l’impronta dell’essere umano sul mare, sempre più grande e profonda, che sta modificando velocemente gli oceani di tutto il mondo. Con conseguenze negative sull’equilibrio degli ecosistemi e sulla biodiversità, e in ultima analisi sul nostro stesso benessere. A svelarlo e quantificarlo, per la prima volta è uno studio condotto da un’équipe di ricercatori dell’Università di Padova e pubblicato su Nature Sustainability. Che ammonisce: se non ci sarà un’inversione di tendenza, nel 2028 l’area di mare “occupata” dall’essere umano crescerà ulteriormente del 50-70%.
L’occupazione del mare
“Gli ambienti marini permanentemente modificati dalla presenza di costruzioni, con effetti in molti casi irreversibili, è in costante aumento”, dice Laura Airoldi, docente all’Università di Padova e all’Università di Bologna. Le strutture artificiali nelle cosiddette zone economiche esclusive (ossia le aree di mare fino a 200 miglia dalla costa sotto la gestione dei singoli stati) occupano negli oceani una’area proporzionalmente paragonabile a quella delle aree urbani rispetto all’estensione della terra ferma, per un totale di circa 32mila chilometri quadrati. Ma a livello ambientale ed ecologico il loro impatto si riverbera su un’area di mare sessanta volte superiore, modificando le caratteristiche del fondale, la circolazione delle acque, la distribuzione delle specie e molto altro (pensiamo all’impatto del Canale di Suez sugli ecosistemi mediterranei, con l’arrivo di specie “aliene” dal mar Rosso). Insomma, le conseguenze sono tutt’altro che irrilevanti.
“Ogni struttura costruita in mare modifica gli habitat naturali che la circondano, e questo può portare a conseguenze sugli ecosistemi e sulla biodiversità che si estendono su ampia scala”, osserva la riocercatrice.
Nuovi problemi, nuove soluzioni
Per ridurre questi impatti negativi, tuttavia, stanno emergendo diverse soluzioni che utilizzano in maniera sostenibile gli ecosistemi marini naturali o semi-naturali”, afferma Airoldi, che insieme ai suoi colleghi su Annual Review of Marine Science una serie di soluzioni per uno sviluppo più sostenibile degli oceani. Come, per esempio, criteri di edilizia “verde” che garantiscano la sostenibilità e azioni mirate di ripristino degli habitat marini che offrano una protezione naturale contro l’erosione e le inondazioni delle aree costiere, come dune di sabbia e letti di ostriche, che possono ricostruire le difese naturali dei litorali. Molto più efficace, sostenibile, economico e piacevole alla vista rispetto alle cosiddette “difese dure”, come i muri di cemento.
“Gli strumenti che abbiamo indicato”, conclude Airoldi, “hanno il potenziale per rinaturalizzare alcune delle aree marine più degradate dallo sviluppo urbano costiero, affrontando allo stesso tempo alcune delle criticità delle società costiere, come i rischi legati ai cambiamenti climatici, la produzione di prodotti ittici, il mantenimento di un ambiente sano e pulito e le crescenti attività ricreative e turistiche”.
Riferimenti: Nature Sustainability, Annual Review of Marine Science