Se è vero che l’archeologia si occupa del passato dell’umanità, ciò non le impedisce di beneficiare di strumenti che appartengono all’oggi e al domani. Come l’intelligenza artificiale, che dall’analisi dei dati dei manufatti rinvenuti negli scavi è in grado di rilevare informazioni che potrebbero essere sfuggite agli archeologi.
I ricercatori del gruppo dell’Università la Sapienza di Roma, diretto da Cecilia Conati Barbaro, tra cui l’archeologo Eugenio Nobile e il ricercatore esperto di Intelligenza Artificiale Maurizio Troiano, utilizzando reti neurali artificiali (un sistema informatico che si ispira alla struttura e al funzionamento dei neuroni nel cervello) e machine learning, hanno per esempio confermato l’esistenza di una specifica traiettoria all’interno della cultura del Neolitico Preceramico B – già riscontrata nei reperti provenienti da Er-Rahib (Wadi el-Yabis), un sito che appartiene al Neolitico Preceramico B (PPNB) – estendendo l’analisi ai dati relativi ai reperti rinvenuti negli scavi di Motza e Yiftahel, nell’area mediterranea, e da Nahal Reuel, nel deserto del Negev, anch’essi appartenenti al PPNB.
L’algoritmo messo a punto da Nobile e Troiano, oltre a confermare la regolarità intrinseca presente nei manufatti dell’area levantina, è riuscito a prevedere le dimensioni originali degli oggetti laminari rotti o danneggiati con una precisione vicina al 99% e a fornire informazioni che erano sfuggite alle analisi svolte con i metodi tradizionali.
I rischi etici dell’IA in archeologia
Tuttavia, se è vero che l’intelligenza artificiale può produrre risultati sorprendenti, è importante considerare e prevenire anche i rischi di carattere etico derivanti dall’impiego di queste tecniche. Nel novembre del 2023, per esempio, sui media italiani compariva la fotografia di una statuetta etrusca riemersa insieme ad altre dal fango dei Bagni di San Casciano. Tuttavia, si trattava di un’immagine realizzata dall’artista Fabrizio Ajello grazie a Midjourney, l’applicativo in grado di generare immagini sintetiche. In questo senso, gli strumenti di IA potrebbero aumentare il rischio di falsi in archeologia. Anche se, rassicura Nobile, l’uso dell’intelligenza artificiale come metodo di produzione di falsi storici allo stato attuale non è diffuso in ambito universitario e in particolare in ambito di ricerca, se non a fini per così dire sperimentali.
Il concetto di autenticità è una questione ampiamente dibattuta quando si parla di ricostruzione e restauro dei Beni Culturali. In quali casi un sistema di IA può fornire all’archeologo risposte non del tutto corrette?
“Chiaramente, quando una domanda di ricerca non sia stata impostata in maniera corretta dal punto di vista scientifico o laddove non ci siano abbastanza dati per procedere in una ricerca completa, l’uso dell’intelligenza artificiale può produrre risultati errati. Ma questo è un problema che si può verificare anche nella ricerca tradizionale. In ogni caso, anche quando l’approccio e il metodo sono scientificamente esatti, le risposte non rappresentano mai una verità assoluta. Proprio in virtù del metodo scientifico, i risultati devono sempre essere vagliati sul lungo termine e, in ogni caso, saranno validi sino a prova contraria. In ogni caso, nel nostro settore l’impiego dell’Intelligenza artificiale è ancora all’inizio”.
Si è portati a pensare che i computer siano del tutto “imparziali”; in realtà, vi sono stati casi nei quali le risposte dell’algoritmo non si sono rivelate del tutto oggettive e non equamente rappresentative delle varie diversità umane. Lei pensa che fenomeni analoghi possano accadere anche in ambito archeologico?
“In linea di principio sì. In generale, a seconda del tipo di impostazione della rete neurale o dell’algoritmo in questione, si può incorrere in fenomeni di discriminazione sociale o etnica. Per evitare che ciò accada in campo archeologico, è necessario che il gruppo di parametri su cui lavora la rete neurale sia variegato. Il rischio, altrimenti, è quello della limitazione del funzionamento della rete neurale, e della fruibilità dei risultati da parte del pubblico. Per ridurre il rischio di errori, accanto agli studi umanistici dell’archeologo – per quanto ormai pienamente caratterizzati dall’adozione della metodologia scientifica – è indispensabile introdurre anche l’insegnamento di alcune discipline ingegneristiche e fisiche. Si pensi alle false teste del Modigliani, un ricordo ancora vivo dopo più di trent’anni. Più ampio sarà lo spettro di conoscenze dell’archeologo, maggiori saranno sia la capacità di utilizzo dell’IA sia la capacità di prevenire e impedire impieghi immorali o non etici di questa tecnologia”.
Pensa che l’IA possa portare alla sostituzione degli addetti del settore, con il rischio di disoccupazione?
“Non vedo questo pericolo. Anzi, ritengo che, come è accaduto in altri settori in cui sono state introdotte nuove tecnologie, si siano creati nuovi mestieri e opportunità di lavoro dopo una fase di normalizzazione sociale, adattamento e aggiustamento che richiedono regolamentazioni adeguate. Penso che l’utilizzo di questa tecnologia debba essere incoraggiato e che sia oggi fondamentale. Sebbene l’intelligenza artificiale abbia origini di decenni fa, è solo nell’ultimo decennio che se ne è iniziato a parlare in archeologia. Spero quindi che nei nuovi corsi di studio in archeologia vengano gradualmente introdotte anche materie ingegneristiche e fisiche”.
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