Le mascherine proteggono dal virus, se ben utilizzate, ma non eliminano del tutto il rischio, e i vaccini ci aiuteranno a combattere la Covid-19 ma non sappiamo quanto riusciranno a ridurre la trasmissione del coronavirus. I test per Sars-CoV-2 sono fondamentali per intercettare i positivi e per attuare le misure di contenimento del contagio, ma devono essere tempestivi, di facile accesso e affidabili. Ogni misura contro il coronavirus è efficace ma da sola anche insufficiente, ognuna ha le sue pecche, i suoi buchi. A cui si sommano le nostre distrazioni, le dimenticanze e gli inevitabili incidenti. È questo il messaggio, chiaro, del modello a groviera (Swiss Cheese Model), più volte citato come emblema della protezione “multistrato”, su più fronti, contro il coronavirus durante la pandemia. Un concetto vecchio di trent’anni ma che si è andato via via affinandosi per meglio illustrare la situazione attuale.
L’ultima versione adattata alla pandemia, ricorda questa settimana il New York Times, è quella diffusa dal virologo Ian M. Mackay della University of Queensland, che ha lanciato un progetto e una serie di discussioni su Twitter per ottimizzare il modello a groviera, che si è così via via affinato fino ad includere non solo fette di formaggio (leggi: misure di contrasto alla pandemia), ma anche un topo: metafora della disinformazione, che rischia “erodere uno qualsiasi di queste fette”, ha spiegato Mackay. Ma occhio, continua: in futuro quel topolino potrebbe addirittura trasformarsi in un ratto. Se volete divertirvi, e unirvi ai consigli, su Twitter è pieno di aggiornamenti sulle varie versioni del modello, compresi i primi abbozzi di Sketchplanator.
A new version with colour & division inspiration from @uq_news and strict mouse design oversight by @kat_arden (ver3.0).
— ɪᴀɴ ᴍ. ᴍᴀᴄᴋᴀʏ, ᴘʜᴅ ?゚ᄂᄃ?゚ᆬᄐ?゚ᄃᄏ (@MackayIM) October 24, 2020
It reorganises slices into personal & shared responsibilities (think of this in terms of all the slices rather than any single layer being most important) pic.twitter.com/nNwLWZTWOL
A voler risalire all’origine del modello però dovremmo arrivare alla proposta del 1990 di James T. Reason, diventata poi un classico nei campi di risk management. Anche in ambito sanitario. Una descrizione del funzionamento del modello del formaggio svizzero si trova proprio in un vecchio documento del Ministero della Salute intitolato “Risk Management in Sanità. Il problema degli errori”. Interessante, nel documento, è il passaggio che spiega la disposizione dei buchi nelle fette di formaggio: “Se questi fossero sempre allineati ci troveremmo di fronte ad un sistema completamente cieco, che non ha saputo, fin dalle prime fasi di progettazione, far fronte ai problemi ed è quindi particolarmente vulnerabile e soggetto ad incidenti”, si legge nel testo. Cosa che potrebbe accadere, per esempio, nel caso del coronavirus (basta dare uno sguardo al modello qua sopra), laddove non fossero osservate le norme di distanziamento, l’utilizzo delle mascherine e l’igiene delle mani: si creerebbe un corridoio fin troppo facile al virus da percorrerere per diffondersi. Più auguratamente, una situazione migliore invece è quella in cui, continuano il documento ministeriale: “i buchi sono invece disposti in modo casuale, segno che ad ogni livello organizzativo corrispondono delle criticità specifiche”, su cui magari intervenire entro certi limiti, ma che non lascino quanto meno spalancate le porte al virus. Ricordiamocelo, anche a Natale.
Foto di copertina: PDPhotos via Pixabay