Dallo scoppio dell’epidemia in Cina, e quindi della pandemia, nelle discussioni intorno al coronavirus si è parlato più volte anche di raffreddore. Per motivi diversi: da una parte per la somiglianza dei sintomi da Covid-19 (per i casi più lievi) con quelli del raffreddore e delle modalità di trasmissione e prevenzione delle due malattie. Dall’altra perché il coronavirus Sars-Cov-2 appartiene alla stessa famiglia di alcuni virus all’origine del raffreddore. E questo potrebbe avere implicazioni importanti non solo per far luce sulle caratteristiche di trasmissione o stagionalità, per esempio, ma anche a livello di risposta immunitaria. Ma proviamo ad andare con ordine.
I coronavirus sono, come abbiamo ripetuto più volte, una famiglia di virus a rna che deve il nome alla caratteristica corona presente sui loro virioni. Li conosciamo dagli anni Sessanta e oggi sono sette quelli che infettano l’uomo, ricorda l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc). Ma non sono tutti uguali, si è soliti distinguere infatti tra coronavirus comuni e meno comuni, con una distinzione che a grani linee separa anche quelli meno preoccupanti per la salute da quelli più pericolosi. Dei primi fanno parte infatti i coronavirus OC43, HKU1, 229E e NL63 – spesso presentati come i virus dei comuni raffreddori, anche se di per sé i coronavirus sono solo uno dei tipi di virus che possono dare origine ai raffreddori, in gran parte causati invece dai rhinovirus; dei secondi i virus causa delle epidemie Mers, Sars e dell’attuale Covid-19 causata da Sars-Cov-2. Le somiglianze con Sars-Cov-2, per sintomatologia – da raffreddore appunto, a mal di gola, testa, tosse e febbre – per interessamento delle vie aeree, sono state da subito al centro dell’interesse dei ricercatori. In attesa infatti di conoscere qualcosa di più sul nuovo coronavirus, i termini di paragoni e le previsioni, pur con tutti i limiti, non potevano tralasciare quello che già sapevamo sugli altri coronavirus, compresi ovviamente anche quelli all’origine della Sars e della Mers.
Uno degli aspetti più interessanti riguarda lo studio della risposta immunitaria del nostro organismo ai coronavirus. La domanda, che abbiamo sentito ripetere più volte nel corso degli ultimi mesi, è: quanto a lungo dura la risposta immunitaria stimolata dal nuovo coronavirus? E quanto può essere protettiva? Guardare agli altri coronavirus, poteva suggerire qualcosa, ma appunto solo suggerire in attesa di conoscere meglio il nuovo. Sappiamo per esempio che l’immunità nei confronti di alcuni coronavirus del raffreddore non dura a lungo, intorno all’anno circa. Lo sappiamo indirettamente anche dal fatto che è abbastanza facile riprendersi un raffreddore (sebbene sì, siano tantissimi i possibili agenti all’origine). Sul nuovo coronavirus quello che abbiamo sentito negli ultimi mesi puntava soprattutto in una direzione: la risposta immunitaria sembra svanire rapidamente nel tempo, dopo alcuni mesi, almeno per quanto riguarda quella anticorpale, la quale però non è l’unica preparata dal nostro organismo. Sembra infatti che le risposte immunitarie alle infezioni da coronavirus abbiano durate diverse a seconda dei componenti che si analizzino, cellulari o umorali, e potrebbero durare nel complesso più a lungo di quanto creduto, secondo alcuni. Sulla efficacia però di questa risposta immunitaria nel tempo sappiamo ancora bene poco: i casi di re-infezioni documentati sono pochi, lasciano ben sperare, ma studiarli è fondamentale per chiarire questo aspetto.
Covid-19 e ictus, cosa dicono gli esperti
C’è però anche un altro aspetto interessante legato allo studio della risposta immunitaria nei confronti del coronavirus di Covid-19 e degli altri coronavirus, e ha a che fare con la possibilità che la risposta immunitaria sviluppata nei confronti di un altro coronavirus possa fornire una qualche forma di protezione (termine da usare con cautela) anche contro altri coronavirus. È qualcosa di cui si parla da tempo, come fenomeno di cross-reattività, e potrebbe avere a che fare con le similitudini tra i diversi coronavirus che infettano l’uomo, per cui pur non avendo mai incontrato SARS-CoV-2 aver contratto in passato un raffreddore da coronavirus per esempio fornire un qualche tipo di immunità, magari favorendo l’insorgenza di forme di Covid-19 più lievi più che proteggere dall’infezione stessa, come suggerisce anche l’elevata contagiosità e suscettibilità al virus a fronte dell’elevata diffusione dei comuni raffreddori. Si parla di possibilità, ma è un’ipotesi di cui si è più volte parlato, avanzata dal riscontro di una sorta di risposta immunitaria pre-esistente appunto (e secondo alcuni un possibile problema di cui tener conto nella specificità di test impiegati per stabilire l’arrivo del nuovo coronavirus).
E’ Covid-19, influenza o raffreddore? Cosa possono dirci i sintomi
Nei giorni scorsi per esempio a tornare sul tema è stata una pubblicazione sulle pagine di Science. Non mette neanche questa il punto sulla situazione, come gran parte della ricerca in corso su Covid-19, ma aggiunge qualche aspetto interessante. I ricercatori dietro allo studio, infatti, raccontano di aver osservato la presenza di anticorpi pre-esistenti in grado di riconoscere il nuovo coronavirus. Soprattutto in bambini e adolescenti. Cosa potrebbe significare questo? Potrebbe, forse, spiegare la minore suscettibilità proprio dei più giovani ai casi gravi di Covid-19, essendo più esposti a infezioni dei coronavirus comuni. Ma attenzione, ha avvertito George Kassiotis del Francis Crick Institute and University College London a capo dello studio in questione: “Ci sono ancora molte cose che non sappiamo su cui bisogna fare ricerca. Per esempio, come si modifica l’immunità a un coronavirus con l’esposizione a un altro coronavirus? O ancora, perché questa attità diminuisce con l’età? Non è il caso di credere che perché si è avuto recentemente un raffreddore si è immuni alla COVID-19”.
Via: Wired.it
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