Lo scopo è chiaro: costruire difese, mettere un muro alla diffusione del coronavirus, impedendo infezioni e così le complicazioni. Ai vaccini si chiede tanto, ma sappiamo che sono in grado di rispondere alle aspettative, se ben disegnati e se di comprovata efficacia e sicurezza. Ma non esisterebbe nulla di tutto questo se accanto alla loro disponibilità non fossero messe a punto anche delle strategie di distribuzione: chi, come e quando deve e può ricevere il vaccino. Le discussioni in materia per quanto riguarda i vaccini contro il coronavirus si sono aperte da tempo. Prematuramente, forse, considerando che ancora un medicinale pronto non esiste. Eppure, quando la corsa senza precedenti – e per questo anche non senza rischi – sarà arrivata al traguardo, un piano per capire come e a chi distribuire il vaccino servirà averlo. Perché il problema ci sarà, e sarà inevitabile in condizioni di pandemia e con oltre sette miliardi di persone al mondo.
È partendo proprio da questo, riconoscendo l’ineluttabilità del problema – “quando saranno stati sviluppati vaccini efficaci contro Covid-19, saranno scarsi” – che un alcuni eticisti si interrogano oggi sul modo migliore per distribuire i vaccini nel mondo, sulle pagine di Science, mettendo in discussione strategie già avanzate in materia, e invitando a ripensare al modo più giusto. Perché, scrivono, ben lungi dall’essere solo un problema di natura economica, sanitaria e organizzativa, la distribuzione del vaccino nei diversi paesi, è anche una questione di etica.
La lista dei candidati vaccini
Sì, ma quale vaccino? La lista dei candidati è lunghissima. Nel documento riassuntivo che periodicamente l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) redige in materia di ricerca sui vaccini, a oggi sono 176 quelli in via di sviluppo. Di questi la gran parte (143) si trova ancora a un livello di sviluppo abbastanza iniziale, preclinico, ma sono già 33 quelli testati nei trial clinici, ovvero nell’essere umano, alcuni arrivati alla fase più avanzata di sperimentazione. Come quelli delle aziende Moderna, Pfizer o quello sviluppato dall’università di Oxford in collaborazione con la farmaceutica AstraZeneca, con cui la Commissione europea avrebbe già preso accordi per la distribuzione di 400 milioni di dosi (disponibili già entro la fine dell’anno, ha detto il ministro della salute italiano Roberto Speranza). A patto che, ha ricordato, i dati della fase 3 ne confermeranno l’efficacia, perché per ora, ha rimarcato, parliamo solo di un candidato vaccino.
Oltre il nazionalismo, per una distribuzione equa
La Commissione europea però al tempo stesso ha fatto sapere di voler prendere parte e finanziare l’iniziativa Covax. “Oggi”, dichiarava la presidente della commissione Ursula von der Leyen, alla fine di agosto, “La commissione annuncia un contributo di 400 milioni di euro a Covax per lavorare insieme nell’acquisto di futuri vaccini a beneficio dei paesi a basso e medio reddito”. E l’iniziativa Covax, un progetto cui prendono parte Gavi, l’Oms e la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations, con il dichiarato intento di promuovere una distribuzione equa dei vaccini al mondo – è uno dei destinatari del modello, pratico a detta dei loro ideatori, presentato ora su Science. Non l’unico destinatario: il Fair Priority Model, si rivolge anche agli stessi produttori di vaccini e ai governi nazionali. Invitati a superare il comprensibile nazionalismo, anche in tema di vaccini. Perché, si legge, se da una parte i doveri dello Stato nei confronti dei propri cittadini, i legami tra gli stessi, e il senso di appartenenza possono giustificare strategie nazionaliste che mirino a dare priorità al proprio popolo, dall’altra i legami si spingono tra le persone e le istituzioni scavalcano i confini, e anche le responsabilità dei governi si estendono oltre. Ragion per cui sarebbe auspicabile magari trovare dei limiti alle esigenze nazionali, quali per esempio quelle di non disporre di quantità di vaccini oltre quelli necessari a mantenere il tasso di riproduzione Rt al di sotto di uno, scrivono Ezekiel J Emanuel della University of Pennsylvania e colleghi. Vaccini che invece potrebbero aiutare paesi non in grado di raggiungere lo stesso risultato.
A chi dare per primo il vaccino?
Messo da parte il discorso sul nazionalismo vaccinale, si apre la questione su come distribuire i vaccini nei diversi paesi. Distribuzione che dovrebbe essere fatta secondo gli autori del Fair Priority Model seguendo dei principi guida che mirino a: ridurre i danni e portare benefici alle persone, privilegiare gli svantaggiati e garantire uguale considerazione morale a tutti, senza discriminazioni di sesso o religione, per esempio. Ma quando si parla di ridurre il danno di una malattia come Covid-19 è necessario prima stabilire quali sono i danni considerati associati alla pandemia, e come si distribuiscono in una scala di priorità. Ecco allora che se la morte e le morbidità associate alle infezioni sono i danni diretti più immediati da coronavirus, non sono però gli unici: il sovraccarico delle strutture sanitarie e le conseguenze di salute da esso derivanti, le difficoltà economiche, la perdita del lavoro, la chiusura delle scuole, i costi in termini di salute mentale, vanno tutti messi in conto quando di parla di limitare i danni e apportare benefici con i programmi di vaccinazione. Ma appunto è necessario identificare delle priorità tra i danni imputabili o meno direttamente a Covid. Ed è qui che il modello messo a punto dagli eticisti entra nella pratica, prevedendo delle diverse fasi – tre, di urgenza decrescente – per la distribuzione dei vaccini e identificando anche dei parametri che la guidino.
Nella prima fase, lo scopo è ridurre le morti premature prevedibili, nella seconda oltre a ridurre i danni di salute causati da Covid-19 lo scopo sarà anche quello di contenere le conseguenze sociali ed economiche, e nella terza infine si vuole ridurre la diffusione a livello di comunità del virus. Per ognuna di queste, dicevamo, gli autori identificano anche dei parametri che potrebbero essere usati per guidare la distribuzione dei vaccini, come lo Standard Expected Years of Life Lost (Seyll, un parametro di salute che misura gli anni di vita persi), o l’aumento del reddito nazionale lordo (Gni) per dose di vaccino per stimare gli effetti a livello economico o il tasso di riproduzione dei diversi paesi nella fase finale, per esempio. Il passaggio da una fase all’altra non è facile da definire, ma potrebbero per esempio essere presi come riferimento ancora gli stessi parametri, scrivono i ricercatori. “La fase 2 potrebbe cominciare quando il vaccino riuscisse a ridurre il parametro Seyll per Covid-19 in modo paragonabile all’impatto dell’influenza”.
I modelli alternativi
Di come allocare i vaccini una volta disponibili si parla, dicevamo da tempo, e con modelli alternativi. Tra le proposte avanzate, ricordano ancora i ricercatori, quella di una distribuzione dei vaccini proporzionale alla popolazione residente in un dato paese, o ancora al numero di persone appartenente alle categorie considerate più a rischio, come gli operatori sanitari o gli anziani. Eppure, secondo gli ideatori del Fair Priority Model, se a una prima analisi possono sembrare modelli equi di distribuzione in realtà non lo sarebbero. “Si presume erroneamente che un trattamento equo tratti allo stesso modo paesi in condizioni diverse piuttosto che rispondere equamente alle loro diverse esigenze”, si legge nel paper, “Paesi ugualmente popolosi possono avere livelli molto diversi di morte premature e devastazione economica da Covid-19”. E, ancora, si chiedono, sicuri che privilegiare il personale sanitario e le popolazioni anziane non risulterebbe in una discriminazione, considerato che i paesi a basso e medio reddito sono quelli più giovani e con meno personale sanitario, magari anche privo dei più basilari dispositivi di protezione? La questione è tutt’altro che semplice, e quanto mai urgente da affrontare.
Via: Wired.it
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