Anche nella pandemia, non c’è solo Covid-19: le altre malattie non vanno in ferie. Fra i danni sulla nostra salute ci sono anche quelli indiretti, non causati dal coronavirus, ma dovuti ai ritardi nei trattamenti e nelle visite e alle mancate prestazioni. Visite e analisi che a volte vengono recuperati con difficoltà o con tempi lunghi, soprattutto se si pensa agli esami per la prevenzione oncologica, i cui ritardi si vanno ancora accumulando. Non solo i pazienti con il cancro hanno risentito di questa situazione, ma anche tutte le persone con altre patologie croniche, con malattie rare, e diverse altre: in qualche caso anche eventi acuti come i casi di infarto non sono stati trattati come avrebbero dovuto.
Sotto i riflettori della scienza c’è in particolar modo il settore dell’oncologia, non perché sia in assoluto l’ambito più colpito dai costi indiretti della pandemia ma perché gli effetti negativi dei ritardi in molti casi si mostreranno nel tempo, fra qualche anno. E saranno rilevabili, purtroppo, dall’aumento della mortalità di quei tumori che, proprio grazie alla prevenzione, sono sempre più tenute sotto controllo – una conquista degli ultimi decenni. Infatti se gli interventi chirurgici per i tumori, quasi sempre urgenti e non differibili, sono stati in buona parte garantiti, al contrario, nella fase acuta dell’epidemia, gli screening sono stati bloccati e poi sono ripartiti ma a rilento. I motivi sono vari: dopo la fine del primo lockdown l’epidemia di Covid-19 non è conclusa e ancora mancano spesso spazi e tempo, anche considerando che i tempi per gli esami sono più lunghi, se pensiamo alla sanificazione necessaria per ogni paziente. Ecco punti di forza e criticità di un sistema che in qualche caso fatica a riprendere il ritmo precedente all’arrivo del coronavirus.
Le dimensioni del ritardo
Nei primi 5 mesi di Covid sono stati effettuati circa 1,4 milioni di esami di screening in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. I dati provengono da un rapporto appena redatto dall’Osservatorio nazionale screening (Ons), che ha fornito una fotografia, da gennaio a maggio 2020, di com’è andata in Italia la prevenzione del cancro, in particolare del tumore della mammella, del colon-retto e del collo dell’utero (o della cervice uterina). All’appello, in quei mesi, sono mancati quasi 500mila esami di screening del tumore del seno, quasi 600mila del tumore colorettale e quasi 400mila di quello della cervice uterina. Numeri importanti, a cui attualmente i medici e le strutture stanno cercando di porre riparo, per quanto possibile.
Fra i vari dati, l’Osservatorio nazionale screening ha anche fornito una valutazione delle mancate diagnosi per i tre tumori per i quali si fa lo screening. L’analisi è stata realizzata attraverso un modello statistico che paragona l’andamento dei primi cinque mesi del 2020 con quello dei primi 5 del 2019. Le stime indicano che nel 2020 ci sono state circa 2.100 mancate diagnosi di tumore al seno, quasi 1.000 per il cancro del colon-retto e circa 1.700 per le lesioni precancerose (o già cancerose) del collo dell’utero. In tutto, insomma, mancherebbero all’appello migliaia di diagnosi.
Screening: una ripartenza a rilento
Anche la ripartenza nel mese di maggio 2020 è stata comprensibilmente non brillante, dato che l’epidemia era ancora in corso, in molte regioni con numeri ancora elevati. I ricercatori hanno rilevato un ritardo medio negli screening pari a poco meno di tre mesi, con qualche regione che si attesta sui 2 mesi, abbassando la media nazionale, e qualche altra che invece arriva a 3 mesi e mezzo, alzandola.
In generale i ritardi sono stati abbastanza contenuti, se si osserva solo questo dato. Il problema, però, è che alla fine del primo lockdown (quello di marzo e aprile 2020), quando le attività di assistenza sono state riaperte, la ripresa degli screening non è stata ottimale. Nella maggior parte delle regioni, si legge nei risultati del rapporto, il numero di esami seguiti nel mese di maggio del 2020 è pari a un decimo di quelli svolti nel maggio 2019.
La resistenza a recarsi per i test
Bisogna precisare che normalmente la popolazione candidata allo screening – per fascia d’età, sesso e altri elementi – viene selezionata e invitata a fare gli esami di screening tramite lettere spedite per posta. “La diminuzione del numero dei test”, si legge nel rapporto, “dipende non solo dalla riduzione del numero degli inviti, ma anche dalla tendenziale minore partecipazione nella fase immediatamente precedente il lockdown e successivamente alla riapertura”. La nota si riferisce soltanto al mese di maggio (non abbiamo ancora i dati successivi). Proprio per recuperare le persone candidate ai test e rimaste in sospeso a causa del blocco gli operatori sanitari dell’Osservatorio nazionale screening hanno raggiunto i pazienti per telefono e non attraverso gli inviti solitamente spediti per posta.
“La paura del contagio da Covid-19 dipende molto dal momento e dal luogo geografico”, spiega a Wired Paola Mantellini, direttore dell’Osservatorio nazionale screening – Ispro (Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica),“per esempio, a maggio, subito dopo la fine del lockdown un numero maggiore di persone erano restie a recarsi negli ambulatori, mentre nel periodo successivo la resistenza si è certamente attenuata. Ma per avere un quadro più chiaro di questo aspetto bisognerà attendere un’analisi più ampia, che includa anche i dati degli ultimi mesi del 2020”.
Ma l’epidemia non è finita
Il rallentamento del mese di maggio è dovuto anche al fatto che nonostante il lockdown fosse appena terminato, l’epidemia di Covid-19 ha però continuato a colpire, anche con numeri importanti. “Pensiamo per esempio allo screening del cancro del colon-retto – sottolinea Mantellini – effettuato attraverso l’esame del sangue occulto nelle feci. In molti casi alcuni laboratori in cui si svolgono i test sono stati del tutto o in parte riconvertiti per la diagnosi di Covid-19. Nelle regioni in cui non c’è un numero sufficiente di laboratori la riduzione dello screening può essere stata quasi totale, anche al momento della ripartenza”.
Un altro problema riguarda la quantità di analisi che materialmente si riescono a fare. “Se prima per un Pap-test e il test per il papilloma virus si impiegava un quarto d’ora e si potevano considerare circa 4 esami ogni ora”, prosegue l’esperta, “ora, con la pandemia, tenendo conto delle nuove regole, in particolare del distanziamento fisico e dei tempi legati alla sanificazione, i test richiedono almeno 20 minuti a paziente, dunque riusciamo a fare tre screening all’ora. Per recuperare, in molte realtà gli operatori sanitari sono impegnati in turni di lavoro più lunghi, che talvolta si protraggono anche nel week end”.
In molti casi, infatti, non ci sono risorse per personale nuovo, aggiuntivo. “Anche quando ci sono queste risorse”, chiarisce l’esperta, “i nuovi operatori devono essere formati e la preparazione è a carico di tutor che spesso si occupano già di smaltire i ritardi citati. Inoltre molti operatori degli screening sono stati spostati sul fronte Covid, per il contact tracing o per altre attività assistenziali”.
Come si osserva dai dati, le regioni più svantaggiate, in termini di ritardi nella ripresa degli screening, non sempre e non in tutti i casi sono quelle in cui il coronavirus ha colpito con più forza. Ma sono soprattutto quelle in cui la rete di assistenza già prima della pandemia presentava qualche criticità oppure era già al massimo livello dello sforzo raggiungibile. “In questo caso”, rimarca Mantinelli, “basta un evento inatteso – e la pandemia è sicuramente stata un grande imprevisto – per mettere in crisi un sistema già quasi in affanno”.
Alla luce del fatto che l’emergenza durerà ancora del tempo, sperando che non sia un periodo molto lungo, bisogna agire, anche a fronte dell’esperienza dei primi mesi, per contrastare i ritardi e le mancate diagnosi. “Intanto un primo passo – chiarisce Mantinelli – è certamente quello di muoversi all’interno di un quadro chiaro, dunque delineare lo scenario, sia in termini di occupazione e saturazione delle sale dedicate al Covid, sia in termini di strumentazione, spazi e personale dedicato all’assistenza per le altre malattie, incluso lo screening, e su quella base agire per riprogrammare e riallocare le risorse in modo da bilanciare equamente le necessità in gioco”.
A volte, infatti, racconta l’esperta, è proprio la riorganizzazione delle risorse che non è equilibrata e non risponde agli effettivi bisogni del momento. “Fermo restando che ci sono ostacoli più difficili da superare”, spiega Mantellini, “come la carenza di personale e fondi, riscontrata soprattutto negli ultimi anni e la mancanza di spazi e operatori causata dall’improvvisa – e soprattutto nella prima fase non prevista – emergenza sanitaria”.
L’effetto dei ritardi sulla mortalità
Ad oggi i ricercatori stanno valutando quale potrebbe essere l’impatto della posticipazione degli screening sul ritardo nelle diagnosi e, a catena, sulle cure e sulla sopravvivenza dei pazienti con il cancro. Su questo tema alcuni studi, sia a livello internazionale sia italiani, hanno fornito delle prime previsioni basate su modelli statistici. Uno studio italiano, Uno studio italiano, finanziato dalla Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e coordinato da Luigi Ricciardiello, dell’università di Bologna e da Luigi Laghi dall’Università di Parma, ha stimato gli effetti di un ritardo protratto nella diagnosi.
La ricerca ha mostrato che un ritardo superiore a un anno nello screening del cancro del colon-retto potrebbe causare un aumento della mortalità nelle persone con questo tumore pari al 12%. Una posticipazione oltre i 6 mesi e fino a 1 anno, inoltre, fa crescere del 3% le diagnosi di cancro del colon-retto in fase avanzata, al terzo e quarto stadio: questo significherebbe che 3 pazienti su 100 avrebbero una diagnosi in fase avanzata invece che negli stadi iniziali. Ricordiamo che i programmi di prevenzione del cancro del colon-retto, il secondo tumore maligno più diffuso, prevedono, nella fascia d’età dai 50 ai 69 anni, uno screening ogni due anni basato sull’esame del sangue occulto nelle feci, che, se positivo, deve essere seguito dalla colonscopia. Se i blocchi degli screening dovuti al primo lockdown (quello di marzo e aprile 2020) sono stati piuttosto contenuti – in quasi tutte le regioni intorno ai 3 mesi – successivamente però la ripresa è stata lenta. “In varie regioni i ritardi si sono accumulati e gli esami sono slittati anche di sei mesi”, spiega a Wired Luigi Ricciardiello, ricercatore della Fondazione Airc e responsabile del percorso diagnostico-terapeutico aziendale del cancro colo-rettale del Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna. “E un ritardo oltre i 4-6 mesi ha un impatto significativo rispetto all’aumento dei casi di tumore del colon-retto in fase avanzata, come mostrato dai dati italiani e anche dai dati degli studi europei”. Il peso dei ritardi, infatti, ormai inizia a farsi sentire in vari paesi.
Non è un caso che le stime italiane siano in linea con quelle di uno studio inglese pubblicato su The Lancet Oncology, condotto dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine e dal King’s College London. Secondo la ricerca, nel Regno Unito il ritardo nelle diagnosi potrebbe determinare, a distanza di 5 anni (dunque nel 2025), un aumento dal 15,3% (nello scenario migliore) al 16,6% (in quello peggiore) dei decessi per cancro al colon-retto, dal 7,9% al 9,6% per cancro al seno, intorno al 5% per il tumore al polmone e intorno al 6% per quello esofageo. Gli autori dello studio commentano nel testo che “si rende necessario intervenire urgentemente con politiche sanitarie, in particolare per gestire gli arretrati nei servizi diagnostici di routine al fine di mitigare l’impatto previsto, associato alla pandemia di Covid-19, sui pazienti con il cancro”. Ma ci sono ancora vari ostacoli da superare. “La pandemia non è conclusa”, sottolinea Ricciardiello, “e anche nei prossimi mesi il problema potrebbe ulteriormente ingrandirsi se non affrontato subito e con determinazione. Un altro elemento di criticità riguarda il fatto che siamo chiamati a recuperare tutti gli esami endoscopici non forniti durante l’emergenza, che si sommano alle endoscopie dei pazienti che sono risultati positivi allo screening del sangue occulto nelle feci. Molte di queste endoscopie sono frutto della sovra-prescrizione da parte dei medici famiglia, che non sempre seguono le linee guida per la prescrizione di questi esami”. Tuttavia, soprattutto in un momento come questo, conclude il ricercatore, l’attenzione dovrebbe essere massima per non rischiare di lasciare indietro i pazienti con il cancro.
Dopo la diagnosi: dai trattamenti agli interventi
Ma lo screening è soltanto il primo step del percorso di assistenza di chi poi scopre di avere un tumore. Se lo screening è stato completamente bloccato durante tutta la fase acuta (marzo e aprile 2020), qualche ritardo può esserci stato anche in ambito chirurgico, come spiega a Wired Giordano Beretta, presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e responsabile dell’oncologia medica di Humanitas Gavazzeni Bergamo. “Fermo restando che nella quasi totalità dei casi in oncologia gli interventi non sono procrastinabili”, sottolinea l’esperto, “molte operazioni, soprattutto quelle in pazienti che poi avrebbero richiesto il ricovero in terapia intensiva, sono state spostate in ospedali Hub per questi casi”. Queste strutture dette appunto hub sono dei centri di riferimento, a livello provinciale, appositamente predisposti per fornire una maggiore continuità nell’assistenza. E nell’emergenza coronavirus sono serviti anche per fornire cure ai pazienti non Covid che necessitavano di interventi urgenti.
Gli specialisti hanno cercato in tutti i modi di non lasciare indietro nessun intervento, prosegue Beretta, anche se qualche ritardo può essersi verificato. “In generale né gli interventi né i trattamenti, come le chemio e le radioterapie, sono stati rinviati, dato che non differibili”, commenta l’oncologo. “L’ambito in cui sono state previste delle posticipazioni è quello degli screening, dunque degli esami di prevenzione sulla popolazione sana (che non ha già una diagnosi di tumore). In questo settore è sicuramente necessario un recupero quanto più possibile rapido e sostanziale, che a causa del protrarsi della pandemia in molte realtà non sta ancora avvenendo”. Visite e controlli di follow-up, poi, sono stati talvolta svolti da remoto, tramite strumenti di telemedicina, che erano e sono importanti e che gli esperti si augurano possano essere potenziati e utilizzati in maniera sempre più diffusa.
Via: Wired.it
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