Creme solari, tutto quello che c’è da sapere sul fattore di protezione

Creme solari
Credits: Pixabay

Creme solari, è bufera. Ci si perdoni la battuta: il meteo, per una volta, non c’entra niente. La metafora è invece riferita ai risultati dei test appena svolti da Altroconsumo, che ha messo alla prova creme e spray solari ad alta protezione, scoprendo che due dei sedici prodotti portati in laboratorio “non garantiscono la protezione che dichiarano in etichetta: si tratta di due prodotti che possono esporre a rischio scottature, soprattutto perché destinati ai bambini”. In particolare, l’esame dell’associazione dei consumatori ha messo in luce che il fattore di protezione di Rilastin e Isdin – questi i nomi commerciali delle creme incriminate – sarebbe rispettivamente pari a 20,9 e 16,5, contrariamente al valore 50+ riportato in etichetta. Ecco il nostro riassunto di quello che è appena successo e qualche indicazione sul funzionamento delle creme solari e sul reale significato del fattore di protezione.

I casi Rilastil e Isdin

Leggendo i risultati dell’analisi di Altroconsumo emergono una buona e una cattiva notizia. La buona è che gli esiti del test sulle creme solari con fattore di protezione 50+ sono stati in linea di massima “rassicuranti”, dal momento che “quasi tutti rispettano il grado di protezione riportato in etichetta”. La cattiva, come dicevamo, è che “fanno eccezione due prodotti”, che sono stati bocciati, segnalati al ministero della Salute e di cui è stato richiesto il ritiro dal mercato. Il primo prodotto è Rilastil Baby transparent spray wet skin 200 ml, sulla cui etichetta è riportata una protezione 50+ e per cui i test di laboratorio, eseguiti per due volte su campioni dello stesso lotto (una a giugno e una dopo la risposta del produttore, che ha confermato il fattore di protezione dichiarato), hanno rilevato rispettivamente un valore pari a 20,9 e 16,3.

Il secondo prodotto è Istin transparent spray wet skin 200 ml: anche in questo caso, la prima prova degli esperti di Altroconsumo ha rilevato un fattore di protezione di 16,5, contrariamente al valore 50+ riportato in etichetta. La casa produttrice ha replicato che il campione testato non apparteneva a un lotto di prodotti venduti in Italia, e Altroconsumo ha quindi replicato il test su un prodotto acquistato nel nostro paese, misurando un fattore di protezione ancora più basso, pari a 14,1.

Le reazioni

Le repliche delle case produttrici delle due creme, naturalmente, non si sono fatte attendere. In particolare, Isdin ha fatto notare che due studi indipendenti (del 2015 e del 2017) hanno certificato che il suo prodotto “ha un Spf [fattore di protezione solare] 50+ d’accordo con la norma Iso 24444:2010”, e che altri due studi del 2018 hanno evidenziato che la crema “ha un Uva-Pf superiore a 20 d’accordo con la norma Iso 24444:2010”. Ganassini, l’azienda che produce le creme Rilastil, ha spiegato allo stesso modo di avere eseguito cinque test tra il 2017 e il 2019 (e di averne fornito i risultati ad Altroconsumo), che hanno confermato il fattore di protezione dichiarato, e di aver chiesto ad Altroconsumo “di poter visionare i test menzionati dall’organizzazione secondo i quali i valori di Spf e Uva-Pf risulterebbero inferiori rispetto a quanto riportato sul prodotto”, ma che tale confronto “volto a dirimere ogni dubbio […] è stato tuttavia negato da Altroconsumo.

Chi ha ragione, quindi?

Al momento, con le informazioni in nostro possesso, è difficile dirlo. Dal canto suo, Altroconsumo dice di aver effettuato un totale di sei test con metodo Iso 2444:2010 (lo stesso riportato dalle case produttrici delle aziende) in due laboratori diversi (qui i – pochi – dettagli); dall’altra, le aziende fanno sapere di aver condotto gli stessi test con lo stesso metodo (su lotti diversi, presumibilmente) e di essere giunti a risultati molto diversi. Per dipanare la matassa si attende la risposta del ministero della Salute, cui Altroconsumo ha effettivamente rimandato la questione, l’unico in grado di richiedere nuove (e indipendenti) prove.

Come funzionano le creme solari

Per capire qualcosa di più è necessario fare un passo indietro, cominciando da una spiegazione più generale sul funzionamento delle creme solari – con questo termine ci riferiremo qui indifferentemente sia a creme propriamente dette che a oli, spray, gel, stick, ossia a tutti i prodotti specificamente progettati per proteggere la pelle dal sole. Tali filtri sono sostanzialmente di due tipi: organici, una sorta di spugne che assorbono la luce solare e la rilasciano sotto forma di piccole quantità di calore, e quelli inorganici, che invece la riflettono come se fossero degli specchi. Generalmente, le creme solari contengono un mix di filtri organici e inorganici, sotto forma di ossibenzone, salicilato di ottile, octocrylene, ossido di zinco, biossido di titanio e altre sostanze.

Ogni filtro offre una protezione diversa per tipo e quantità di raggi ultravioletti emessi dal sole, divisi in due categorie, gli ultravioletti A (Uva) e gli ultravioletti B (Uvb). I raggi ultravioletti di tipo C, invece, non raggiungono la superficie terrestre perché vengono bloccati dall’ozono). Gli Uvb sono i raggi solari responsabili della produzione di melanina e della comparsa di eritemi; i raggi Uva, invece, sono quelli che penetrano più in profondità e causano l’invecchiamento precoce della pelle. Ma c’è dell’altro: nel caso di esposizioni particolarmente prolungate, i raggi ultravioletti possono indurre il possibile danneggiamento del dna e il conseguente rischio di incorrere in mutazioni patogene, che possono dar luogo a malattie anche gravi come carcinomi (basocellulari e squamocellulari) e melanoma.

Fattore di protezione: cos’è e come si calcola

Il fattore di protezione indicato sui cosmetici che contengono filtri solari è riferito unicamente alla schermatura da raggi ultravioletti di tipo B. E pertanto, come precisano gli esperti della British Association of Dermatologists (Bad), andrebbe più correttamente chiamato fattore di protezione dalle scottature solari, dal momento che gli Uvb sono responsabili degli eritemi. Il senso del valore dell’Spf è il seguente: il numero indica la dose di esposizione solare (durata moltiplicata per potenza radiante per area) multipla della dose che dà luogo alla comparsa di eritema. Più semplicemente: se ci si cosparge di un prodotto con protezione 50 si sarà soggetti a scottature con un’esposizione 50 volte più alta rispetto a quella con cui ci si scotterebbe senza protezione. Oppure, in altri termini: una crema con fattore di protezione pari a 15 fa passare circa 1/15 dei raggi ultravioletti (ovvero ne filtra circa il 93%); una con fattore di protezione pari a 30 ne fa passare 1/30 (ovvero ne filtra circa il 97%) e una a protezione elevata, con fattore di protezione pari a 50, ne fa passare 1/50 (ovvero ne filtra il 98%).

Questo significa che oltre un certo numero, all’aumentare dell’Spf, la quota di radiazioni filtrate cresce molto lentamente. Per di più, non esiste alcuna crema che riesca a bloccare il 100% della radiazione Uvb, come ricordano gli esperti dell’American Academy of Dermatology.

Questione di misura

Oltre alla questione relativa alla definizione (ripetiamo: il fattore di protezione solare è riferito solo ai raggi ultravioletti di tipo B, e non dice nulla sulla schermatura dai raggi di tipo A), c’è anche un altro problema a complicare lo scenario. E cioè il fatto che i risultati dei test di laboratorio per la misura del fattore di protezione solare sono soggetti a grande variabilità, che può arrivare fino addirittura al 50%, come evidenziato in uno studio pubblicato nel 2009 dalla British Association of Dermatologists, dall’eloquente titolo Sun protection factors: world wide confusion. La normativa attualmente vigente in Unione Europea e in Australia, Nuova Zelanda, India, Canada e altri paesi è la già citata Iso 24444:2010, che “specifica un metodo per la determinazione in vivo del fattore di protezione solare”; negli Stati Uniti, invece, è in vigore un altro protocollo sperimentale. La buona notizia è che i risultati dei due metodi di misurazione sono coerenti tra loro, come attestato da uno studio pubblicato nel 2013.

Le raccomandazioni sull’esposizione al sole

In virtù di uno scenario così complesso, e a tutela della salute dei consumatori, la Commissione europea ha diramato, nel 2006, una serie di raccomandazioni “sull’efficacia dei prodotti per la prodotti solari e sulle relative indicazioni”. In particolare, la Commissione ha disposto che “tutti i prodotti per la protezione solare dovrebbero proteggere dai raggi Uvb non meno che Uva” e che non dovrebbero essere riportate in etichetta indicazioni che lasciano supporre “una protezione del 100% dai raggi UV, del genere ‘schermo totale’ o ‘protezione totale’, né “il fatto che in nessun caso sia necessario riapplicare il prodotto, del genere ‘prevenzione per tutto il giorno’”. Relativamente alla protezione per i raggi Uva, inoltre, l’Unione europea raccomanda che la protezione debba essere almeno un terzo di quella offerta dall’Sfp: quando tale criterio è soddisfatto, sull’etichetta dovrebbe comparire un cerchietto con la scritta Uva all’interno.

Dove, quando e quanto proteggersi? In generale, durante la giornata le creme tendono a perdersi, un po’ perché vengono assorbite dalla pelle un po’ per via di bagni e sudorazione: per questo motivo, gli esperti raccomandano una riapplicazione in media ogni paio d’ore, senza dimenticare nessuna zona del corpo, in particolare la zona posteriore del collo, i piedi, le tempie e le orecchie. Indicativamente, per un adulto la quantità di crema minima dovrebbe corrispondere a circa 6 cucchiaini pieni da spargere sul corpo (equivalenti a circa 36 grammi), un paio se si intende coprire solo braccia, collo e testa. Tutto preferibilmente dai 15 ai 30 minuti prima di esporsi al sole.

Via: Wired.it

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