Quanto grande può diventare un mammifero, e quanto velocemente? La prima risposta è facile, basta pensare agli elefanti o alle balene. Alla seconda parte della domanda, invece, sino a oggi mancava un riscontro. Sebbene si studi molto l’evoluzione di caratteri come le dimensioni corporee all’interno delle singole specie (microevoluzione), poco si conosce circa i pattern evolutivi dei medesimi tratti in gruppi di animali più ampi, per esempio l’intera classe dei mammiferi (macroevoluzione). Ora uno studio aiuta a rispondere a entrabe le questioni: è quello pubblicato su PnaS da un gruppo di ricerca coordinato da Alistair Evans della Monash University, in Australia
Evans e la sua équipe hanno collezionato dati sulla massa di mammiferi appartenenti a 28 gruppi (tra cui elefanti, roditori e cetacei) vissuti negli ultimi 70 milioni di anni, a partire dall’estinzione di massa del Cretaceo che segnò la scomparsa dei dinosauri. Hanno poi calcolato la velocità di accrescimento delle dimensioni corporee in termini di generazioni (per poter comparare specie dalla durata di vita media diversa). Scoprendo che per passare dai circa 20 grammi di un piccolo roditore alle oltre 2 tonnellate di un elefante ci sono volute 24 milioni generazioni. Il tempo si riduce alla metà se parliamo di animali come le balene: primo perché in acqua è più facile sostenere il peso di corpi imponenti, secondo perché le grandi masse aiutano la termoregolazione. E siccome mantenere la temperatura corporea in acqua è più complicato che sulla terra, la selezione naturale deve aver spinto affinché questo carattere si affermasse velocemente negli animali acquatici.
Sorprendentemente, i ricercatori hanno scoperto che il processo inverso, cioè la riduzione delle dimensioni corporee, può essere anche dieci volte più veloce. Diventare più piccoli, in effetti, è meno problematico: serve meno cibo e ci si riproduce più velocemente. E non è un caso che animali come gli elefanti nani, oggi estinti, vivessero su isole, dove le risorse limitate avrebbero favorito specie con minori necessità energetiche.
Riferimento: doi: 10.1073/pnas.1120774109
Credit per l’immagine: Monash University