Dalla parte di Eva

Venti luglio 1998: una ragazza di dodici anni muore in Egitto in seguito a una mutilazione genitale, effettuata in ospedale, nonostante un decreto ministeriale abbia messo fuori legge tale pratica alla fine dello scorso anno. E’ solo di uno tra i casi più recenti riportati dalla cronaca: i giornali peridicamente danno notizia di giovani donne che sono morte per essere state sottoposte a queste pratiche cruente nei loro paesi d’origine. Ma anche le nostre nazioni industrializzate sono sempre più spesso direttamente coinvolte.

Solo in Italia, oggi vivono 38.000 donne infibulate o escisse – con la vulva cucita o comunque mutilata e senza la clitoride – e 20.000 bambine che rischiano di essere “operate”. Si tratta di migliaia di donne che abitano nelle nostre città, e che si rivolgono alle nostre strutture sanitarie, anche se con reticenza e molto spesso solo di fronte alle emergenze. Migliaia di neo-mamme che, nel rispetto di questa pratica millenaria che le trasforma in donne rispettabili e adatte al matrimonio, chiedono a chi le ha fatte partorire di essere cucite di nuovo, e preparano per le proprie figlie uno stesso destino. La pratica delle mutilazioni, che fino pochi decenni fa aveva per l’Occidente un interesse esclusivamente “antropologico”, è arrivata a coinvolgere direttamente le nostre strutture sanitarie e il nostro ordinamento giuridico.

“E’ dall’88 che mi batto perché questo sia considerato un problema di salute pubblica in Italia – dichiara Marica Livio, una giovane psicologa dell’Università di Padova. “E perché si prendano in esame senza reticenze le implicazioni di ordine etico, legale, sanitario e psicosessuale collegate all’introduzione di questa pratica in un contesto completamente nuovo”. E’ ancora troppo diffuso, infatti, l’atteggiamento di generico rispetto della diversità che, dietro la maschera del relativismo culturale, nasconde l’impreparazione dei medici nostrani e la sottovalutazione della gravità del fenomeno. E questo non fa che aumentare i disagi psicologici e fisici di queste donne, e incoraggiare interventi sanitari illegali e contrari alla dichiarata deontologia medica.

Secondo un rapporto dell’Oms del 1997 le mutilazioni genitali femminili (Mgf), che colpiscono oltre 130 milioni di donne in tutto il mondo, “sono sempre più frequenti in Europa, Australia, Canada e Stati Uniti, meta di immigranti per i quali le mutilazioni genitali fanno parte della tradizione”. L’Occidente si deve munire dunque di nuove norme, e di nuove chiavi di lettura per affrontare questa realtà che cambia. Dal punto di vista legislativo, l’Italia fatto qualche passo in questa direzione. Nel luglio dello scorso anno, la Camera dei deputati ha presentato un disegno di legge dove si riconosce che “la pressione familiare e sociale per imporre queste mutilazioni è molto forte in tutti i ceti sociali, e anche tra le comunità residenti nei paesi occidentali la pratica inaccettabile è tutt’altro che infrequente”. Nella proposta si impegna il governo a “emanare direttive per evitare che pratiche discriminanti e disumane possano svolgersi nel nostro Paese, sia in cliniche compiacenti, sia in modo illegale e improvvisato”. Ma questa iniziativa, a tutt’oggi, non ha avuto seguito.

In ogni caso, la legge da sola non basta. Occorre una prevenzione intelligente, che tenga conto delle situazioni reali. Prendiamo il caso di una donna adulta: decidere di essere deinfibulata durante la gravidanza non è poi così scontato. Infatti, se l’ancoraggio è la comunità di origine, non essere ricucita dopo il parto, anche se vive a Milano o a Roma, equivale a un marchio di vergogna. “Per le ragazze, poi, è ancora più difficile – fa notare la dottoressa Livio – perché vivono l’abisso tra due modi di vita. Per loro, le mutilazioni diventano sempre più un atto chirurgico e sempre meno un ‘rito di passaggio’. Le loro nonne e le loro madri consideravano questo un momento importante, e lo sopportavano nel migliore dei modi perché coincideva con l’accettazione sociale. Oggi al contratrio rappresenta una barriera che separa dalle coetanee.”

A complicare il quadro d’insieme, si unisce l’urgenza di sanare le incompetenze del personale sanitario. Infatti, la maggioranza dei medici italiani è ancora totalmente impreparata. Salvo rare eccezioni, come i corsi di medicina transculturale organizzati dall’Istituto S. Gallicano di Roma, quasi tutto è lasciato all’iniziativa individuale di quei pochi che non vogliono ignorare il problema, e decidono di imparare sul campo perché all’università non si parla di infibulazione. Del resto, magra consolazione, anche in altri Stati europei le cliniche specializzate si contano sulle dita di una mano: sono concentrate soprattutto in Inghilterra, dove esistono centri creati espressamente per assitere le donne immigrate e dove si possono richiedere interventi di deinfibulazione. In Italia esiste probabilmente una sola struttura pubblica, la clinica ostetrica dell’Università di Firenze, dove si pratica la deinfibulazione con il laser e si sperimentano nuove strade di comunicazione con le pazienti. L’idea è di aprire un dialogo tra loro e i medici occidentali, con la mediazione di gruppi di donne africane che hanno posizioni diverse riguardo alle Mgf, in un confronto incrociato. “Solo così – secondo Omar Hussen Abdulcadir, ginecologo della clinica – si può muovere qualcosa”.

Arriviamo così al nocciolo del problema, che nessuna legge o corso di formazione sanitaria può sperare di risolvere. Quella che ai nostri occhi si configura come una smisurata violenza millenaria perpetrata nei confronti di milioni di donne, una smisurata violazione del diritto fondamentale, per milioni di donne, a preservare la propria integrità fisica e psicologica, non può essere arginata solo in nome di principi sanitari ed etici nati e cresciuti all’ombra della scienza e della filosofia delle nostre società. Perché tra tutte, le più importanti sono le voci delle protagoniste. Le organizzazioni internazionali (per esempio Rainbo ) che da anni si battono contro le Mgf lo hanno capito, e stanno cogliendone i primi frutti. Tra queste, in cima a tutte c’è la Forward (Foundation for women’s health, research and development), da 15 anni impegnata nell’abolizione delle Mgf, che ha fatto da traino per molte altre iniziative. In Italia c’è l’Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo), cassa di risonanza per iniziative transnazionali e impegnata in prima persona sul territorio nazionale. E in Francia, il Groupe de femmes pour l’Abolition des Mutilations Sexuelles (Gams), che dal 1982 lavora in stretto contatto con l’Inter-African Committee, la rete di donne africane che combattono le mutilazioni nei loro paesi d’origine.

L’invito è quello di alzare lo sguardo e dialogare con le protagoniste. In Africa ci sono migliaia di donne che, senza rinunciare alla propria identità culturale, denunciano sempre più apertamente questa violenza, e rifiutano con forza una pratica che è contro di loro. “Una consapevolezza che non è stata indotta dalla nostra cultura – sottolinea Maria Rosa Cutrufelli, autrice di un romanzo-documento sulle mutilazioni in Somalia – ma da un confronto che ha fatto accrescere la consapevolezza da entrambe le parti. Mi ricordo delle conferenze dell’Onu sulle donne. All’inizio c’era uno scontro molto forte tra donne bianche e nere. Oggi c’è una terreno di discussione. Si può stare insieme dalla parte di Eva”.

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