di Michele Avalle e Irene Del Lesto
No, non saremo mai inseguiti da un Tirannosauro come in Jurassic Park: per fortuna (o purtroppo), il DNA di una specie estinta 65 milioni di anni fa, come i dinosauri, è impossibile da recuperare e manipolare. Non è però del tutto inconcepibile pensare di ritrovarsi, in un futuro neanche lontano, ad accarezzare un dodo, per esempio. Grazie infatti allo sviluppo di tecniche di editing genetico – come la CRISPR-Cas9 – e di clonazione, riportare in vita specie animali estinte non è più fantascienza, ma una possibilità concreta, perseguita da diverse équipe di scienziati in tutto il mondo. Ma è giusto farlo? Molti pensano di no, e c’è un ampio e aperto dibattito all’interno della comunità scientifica: de-estinguere specie scomparse è davvero una buona idea?
“Siamo come dèi, tanto vale imparare a farlo bene”, afferma il futurologo ed ecologista Stewart Brand, principale ideologo della de-estinzione. Per ora tanto bene non l’abbiamo fatto: le stime parlano di circa 350 specie tra mammiferi, uccelli, rettili e anfibi estinte a causa delle attività umane dal 1500 a oggi. È la “sesta estinzione di massa”, come la chiamano enfaticamente i biologi, e l’abbiamo provocata noi. Riuscire a resuscitare alcune specie ci donerebbe forse un po’ di redenzione, ma potrebbe rischiare di andare a scapito di quello che è universalmente riconosciuta come l’obiettivo primario per contenere l’entità di questa emergenza: preservare gli ambienti naturali delle specie in pericolo di estinzione. In questo senso “non è giusto destinare sforzi e fondi alla ricerca volta alla de-estinzione di specie animali”, afferma Michele Scardi, ecologo dell’Università Tor Vergata di Roma, esprimendo un parere che è in linea con quello della maggior parte dei suoi colleghi. “È un esercizio concettualmente interessante, ma credo ci siano temi più importanti e certamente urgenti che necessitano di risorse”.
Dal canto loro, i fautori della de-estinzione sostengono invece che tali risorse sarebbero ben investite, poiché, argomentano, alcuni ecosistemi trarrebbero giovamento dalla reintroduzione di specie scomparse che giocavano un ruolo chiave per l’equilibrio dell’ecosistema stesso. Sarebbe il caso del mammut per la tundra (che un tempo era steppa) siberiana, o del piccione passeggero per le foreste del Nord America, non a caso due dei maggiori candidati alla “resurrezione”. Questa posizione però non è facilmente difendibile, perché i biosistemi sono determinati da un intrico estremamente complesso di relazioni interspecie, che fanno sì che, come afferma Scardi, “nessuno sia in grado di prevedere con certezza l’esito di alterazioni anche molto semplici, come l’introduzione di una singola nuova specie”.
Viene da pensare all’emblematico caso del rospo delle canne che, introdotto artificialmente nella regione del Queensland, in Australia, per combattere un dannoso coleottero, ha modificato e messo a repentaglio un intero ecosistema, ricorda National Geographic. “Le specie si sono sempre spostate e si sono sempre estinte – spiega Scardi – ma il principio che sostiene la logica della conservazione è che se questi processi avvengono per cause non del tutto naturali, allora la loro dinamica può essere catastrofica, cioè può portare a transizioni non reversibili in tempi molto brevi. La de-estinzione da questo punto di vista è anche più pericolosa, un po’ come l’acquacoltura di specie alloctone”. Ciò deve essere necessariamente tenuto in conto nel calcolare i rischi e i benefici, per l’ambiente e per l’essere umano, della reintroduzione di una specie in un habitat che, evolvendosi nel tempo, non può che essere diverso da quello che le fu proprio. “Per questi motivi – prosegue Scardi – in questi casi andrebbe applicato rigorosamente il principio di precauzione. Sinceramente non riesco a pensare a una situazione in cui l’ipotetico beneficio possa superare il rischio”. Paradossalmente quindi, l’ostacolo maggiore al successo della de-estinzione non sembra essere lo sviluppo delle tecniche per ricreare gli animali.
Anche da questo punto di vista – l’avanzamento tecnologico – la pretesa dei sostenitori della de-evoluzione, che tecniche e metodi sviluppati da questa linea di ricerca possano contribuire a preservare la diversità genetica di specie a rischio, incontra una forte opposizione da parte dei molti detrattori. La sintesi di Scardi sull’argomento è lapidaria: “La diversità genetica delle specie a rischio si conserva solo preservando le loro popolazioni, possibilmente senza relegarle in poche zone chiuse e non connesse. La de-estinzione non ha nulla a che fare con questo”.
Un ultimo ma non meno importante fronte di discussione riguarda l’effetto che la possibilità di de-estinzione avrebbe sull’opinione pubblica e sulle politiche ambientali. A chi, come Stewart Brand, sostiene che la meraviglia e lo stupore generati dalla cosa incentiverebbero gli sforzi volti alla conservazione in generale, si contrappone chi, come Scardi, teme invece un effetto contrario di desensibilizzazione: “In generale il principio che la possibilità di ripristinare un bene naturale non debba renderlo sacrificabile è universalmente accettato, ma questo avviene spesso più nella teoria (leggi, direttive, regolamenti, etc.) che nella pratica. In questo contesto la de-estinzione, se mai venisse accettata come possibile misura di compensazione, potrebbe fornire un’ulteriore spinta verso forme di uso non sostenibile degli ambienti naturali e dei beni e servizi che essi forniscono”.
Articolo prodotto in collaborazione con il Master SGP di Sapienza Università di Roma