Fino a una decina anni fa non c’era scelta: il diabete neonatale si curava con l’insulina, spesso per tutta la vita. Poi, nel 2006, un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Andrew Hattersley dell’Università di Exeter ha fatto una scoperta destinata a rivoluzionare la vita dei piccoli pazienti e delle loro famiglie: circa la metà dei casi, quelli con la mutazione del gene KCNJ11 o ABCC8, si possono curare per via orale con farmaci, le sulfaniluree, già usati da anni, ma solo per il diabete di tipo 2. Oggi, ad opera dello stesso gruppo di ricerca, arriva la conferma appena pubblicata su The Lancet Diabetes and Endocrinology: questi farmaci sono sicuri ed efficaci anche dopo dieci anni di trattamento ed hanno migliorato non solo la qualità di vita ma anche l’esito a lungo termine dei piccoli pazienti.
Il diabete neonatale, quel raro tipo di diabete che esordisce prima dei sei mesi di vita, è infatti, nella grande maggioranza dei casi una malattia monogenica (determinata dall’alterazione di un gene). Oggi di geni potenzialmente responsabili se ne conoscono più di venti ma in quasi la metà dei casi di tratta di una mutazione del KCNJ11 che codifica per i canali cellulari del potassio: la loro alterazione rende le cellule del pancreas incapaci di secernere insulina (ma non di produrla). La conoscenza che i farmaci della classe sulfaniluree agiscono proprio su questi canali “ripristinando” la loro funzione e rendendo le cellule del pancreas capaci di liberare insulina quando necessario, ha consentito ai ricercatori del gruppo di Hattersley di sperimentare con successo il passaggio dall’insulina alle sulfaniluree in un gruppo di piccoli pazienti con diabete neonatale permanente legato alla mutazione del KCNJ11 che, nel 90% dei casi, hanno potuto abbandonare le ripetute iniezioni giornaliere di insulina. Ma questo succedeva più di dieci anni fa. Quale sarebbe stato il decorso nel lungo periodo dei piccoli pazienti avrebbe potuto dirlo solo un follow up prolungato nel tempo.
Oggi lo studio prospettico multicentrico pubblicato dallo stesso gruppo internazionale, di cui fa parte anche Fabrizio Barbetti dell’Università Tor Vergata di Roma, mostra che il 93% degli 81 pazienti passati alle sulfaniluree e seguiti per 10 anni ha mantenuto un ottimo controllo della glicemia senza necessità di insulina anzi, i valori di zuccheri nel sangue erano più stabili, tanto da evitare casi di ipoglicemia severa (caratterizzata da perdita di coscienza, convulsioni, ricovero), una delle complicanze più gravi e temute della terapia insulinica per le sue potenziali fatali conseguenze. Inoltre, la terapia con sulfaniluree è risultata sicura anche agli alti dosaggi richiesti per trattare questo particolare tipo di diabete infantile, che sono da quattro a dieci volte più elevati rispetto a quelli che si impiegano per il diabete di tipo 2. Solo il 14% dei pazienti ha riportato effetti collaterali lievi, soprattutto disturbi addominali transitori che non hanno richiesto la sospensione della terapia.
I dati, concludono i ricercatori in chiusura dell’articolo, sottolineano l’importanza di test genetici precoci per bambini più piccoli d sei mesi con diabete, all fine di facilitare il trasferimento di tutti i pazienti con diabete permanente da mutazioni KCNJ11 al trattamento con le sulfaniluree. Parallelamente, precisano gli scienziati, sarà però necessario continuare a studiare gli effetti di questi trasferimenti terapeutici precoci e dell’utilizzo di alte dosi dei farmaci a livello neurologico.
“Questo è un esempio, forse tra i migliori, di medicina di precisione”, ci ha detto Barbetti, che all’Università Tor Vergata è professore di Biologia Molecolare, “non solo più del 90% dei casi con tale mutazione (del gene KCNJ11, nda) risponde a questa classe di farmaci ma risponde a lungo e questa è una grossa differenza rispetto a quello che è il normale uso di questi farmaci nel diabete di tipo 2 dove spesso l’efficacia del farmaco declina nel corso del tempo. È un dato di grande importanza perché ci consente di capire meglio i problemi della terapia anche nell’adulto”, conclude il ricercatore.
Riferimenti: The Lancet Diabetes and Endocrinology