La terapia genica potrebbe rappresentare una nuova speranza per i pazienti affetti da diabete. Secondo uno studio americano, pubblicato sulle pagine di Cell Stem Cell, la terapia genica si è mostrata capace di far regredire il diabete di tipo 1, per ora solo nei topi. Più precisamente, il team di ricercatori dell’Università di Pittsburgh è riuscito a modificare alcune cellule del pancreas mascherandole da cellule producenti insulina – in grado quindi di secernere l’ormone necessario a controllare i livelli di glucosio – ma proteggendole allo stesso tempo dall’attacco del sistema immunitario, impazzito nel caso del diabete di tipo 1.
Il diabete di tipo 1 è una malattia cronica in cui il sistema immunitario attacca e distrugge le cellule beta del pancreas, quelle deputate alla secrezione di insulina, innalzando, di conseguenza, i livelli di glucosio nel sangue. Nei pazienti con diabete di tipo 1 è necessario, proprio per controllare i livelli degli zuccheri nel sangue, procedere all’assunzione di insulina dall’esterno. Ma la buona gestione della malattia mira anche a preservare e ripristinare la funzione delle cellule beta, laddove possibile.
Secondo i ricercatori, una ipotetica terapia sostitutiva delle cellule beta sarebbe probabilmente fallimentare in quanto le nuove cellule potrebbero essere vittime della stessa autoimmunità che ha distrutto le cellule originali. Proprio per questo motivo, una potenziale soluzione sarebbe quella di riprogrammare altri tipi di cellule in cellule beta funzionali, che da una parte possano produrre insulina, ma dall’altra siano diverse dalle cellule beta originali, in modo da non essere riconosciute e attaccate dal sistema immunitario.
Per dimostrare la fattibilità di questo nuovo approccio, i ricercatori americani hanno progettato un vettore Aav (vettore virale adeno-associato) per trasportare nel pancreas dei topi (con diabete di tipo 1) i geni di due proteine, Pdx1 e MafA, fattori di trascrizione che aiutano nella sintesi e nella secrezione dell’insulina. Più precisamente, Pdx1 è un fattore di trascrizione necessario per lo sviluppo del pancreas, compresa la maturazione e la proliferazione delle cellule beta, mentre MafA è un fattore di trascrizione che si lega al promotore dell’insulina per regolare l’espressione dell’ormone e il metabolismo delle cellule beta. Lo scopo era quello di creare cellule beta-simili funzionali riprogrammando le cellule alfa pancreatiche (addette normalmente alla produzione di glucagone, antagonista dell’insulina), che sono molto abbondanti e molto simili alle cellule beta. Dai risultati è emerso che la riprogrammazione è avvenuta con successo: attraverso questa nuova strategia è stato possibile ripristinare i normali livelli di glucosio nel sangue nei topi diabetici per un lungo periodo di tempo (intorno ai quattro mesi) grazie a nuove cellule produttrici di insulina derivate quasi esclusivamente dalle cellule alfa. “La terapia genica virale sembra creare queste nuove cellule produttrici di insulina che sono resistenti a un attacco autoimmune”, spiega l’autore dello studio George Gittes. “Questa resistenza sembra essere dovuta al fatto che queste nuove cellule sono leggermente diverse dalle normali cellule di insulina, ma non così diverse da non funzionare bene”.
Tuttavia, una delle principali preoccupazioni dei ricercatori è che i topi alla fine dei quattro mesi tornino a essere malati, suggerendo quindi che questo trattamento non possa rappresentare una cura definitiva per la malattia. “La protezione dal diabete nei topi non è permanente, anche se alcuni studi suggeriscono che i processi nei topi sono molto accelerati e che, quindi, quattro mesi nei topi potrebbero tradursi in diversi anni negli esseri umani”, precisano i ricercatori, sottolineando che sono già state avviate le sperimentazioni di questo nuovo approccio nei primati. “Una sperimentazione clinica in entrambi i diabetici di tipo 1 e di tipo 2 nell’immediato futuro è abbastanza realistica, data l’impressionante regressione del diabete, insieme alla fattibilità nei pazienti di fare terapia genica con vettori Aav”, conclude Gittes.
Riferimenti: Cell Stem