Avanti con giudizio, e sempre tendendo l’orecchio alle preoccupazioni del pubblico. È questa la filosofia con cui l’Unione Europea ha scelto di muoversi sulla strada delle nanotecnologie. Poche settimane fa si è concluso, con una conferenza svoltasi a Bruxelles il 5 febbraio, Nanodialogue, progetto finanziato dal VI programma quadro che si proponeva di creare spazi di discussione e incontro tra mondo della ricerca e cittadini sul tema delle nanotecnologie. Per aumentare la comprensione di questo settore ancora oscuro per buona parte del pubblico, e insieme raccogliere per tempo perplessità e preoccupazioni dei cittadini.
Nanodialogue (realizzato da una rete di 11 partner tra cui, per l’Italia, la Fondazione Idis – Città della Scienza e l’Associazione MQC2 ) ha organizzato una mostra modulare sulle nanotecnologie, ripetuta con grande successo di pubblico in otto paesi europei e contornata da momenti di confronto e discussione tra scienziati e pubblico. In più ha raccolto, tra i visitatori della mostra, un questionario su atteggiamenti e aspettative verso il settore. I risultati di quest’ultima ricerca, presentati alla conferenza di Bruxelles, sono tutto sommato rassicuranti: il sessanta per cento dei visitatori pensa che le nanotecnologie avranno un impatto nel complesso positivo sulla loro vita. Quelli che pensano che porteranno a modi migliori per diagnosticare e curare diverse patologie sono una maggioranza bulgara, rispetto a quelli che temono minacciosi stormi di nanorobot autoreplicanti come quelli immaginati da Michael Crichton. Chi vede dei rischi, li vede soprattutto legati alla sicurezza nazionale e agli squilibri economici (la creazione di un ‘nanodivide’ tra nazioni ricche e povere’).
Insomma, a differenza delle biotech le nanotech sembrano trovare una buona accoglienza nella società. Ma la prudenza non è mai troppa, e anche il VII programma quadro dedicherà fondi a indagare le implicazioni etiche, legali e sociali delle nanotecnologie, in particolare mediche. Un rapporto appena pubblicato dallo European Group on Ethics in Science and New Technologies (Ege) raccomanda che almeno il 3 per cento del budget complessivo per la nanoscienze sia impiegato in questo modo, e che il tema dei possibili rischi per la salute, su cui al momento si sa poco o nulla, sia ampiamente indagato prima che applicazioni di nanomedicina arrivino effettivamente sul mercato.
A livello europeo la preoccupazione è sempre la stessa, comune anche al settore, egualmente in crescita, delle neuroscienze: non ripetere l’errore fatto con le biotecnologie, e ascoltare la voce dei cittadini per tempo, prima di trovarsi marce di protesta sotto le finestre quando quelle tecnologie sono ormai sul mercato. Servirà? Massimiano Bucchi, docente di sociologia della scienza all’Università di Trento e tra i maggiori esperti italiani sui rapporti tra scienza e società, era presente alla conferenza di Bruxelles. “Nanodialogue era un ottimo progetto, che ha raggiunto gli obiettivi che si era dato. Certo ci sono delle contraddizioni di fondo in molte iniziative di questo tipo, che in futuro andrebbero risolte. Prima di tutto rischiamo di fare l’errore inverso rispetto alle biotecnologie. Se era sbagliato preoccuparsi troppo tardi delle opinioni del pubblico, lo è anche preoccuparsene troppo presto. Sulle nanotecnologie il livello di conoscenza tra i cittadini è ancora molto basso, è difficile immaginare scenari realistici sul loro utilizzo. Le opinioni attuali potrebbero cambiare in fretta con le prime applicazioni su larga scala”.
Più in generale, secondo Bucchi, è un errore concentrare la discussione pubblica sui soli aspetti dei rischi per la salute e degli aspetti etici, come fa il già citato documento dell’Ege. “Già nel caso delle biotech si è visto che questo non esaurisce il discorso. Se anche una tecnologia è sicura, restano molti altri aspetti su cui i cittadini vorranno dire la loro. Quella tecnologia serve davvero? E a chi? Come dovrebbe essere ripartita la ricchezza che produrrà?”. Anche il problema dei limiti etici viene troppo spesso affrontato in modo quasi sindacale, sottolinea Bucchi. Si mettono attorno a un tavolo rappresentanti di diversa estrazione sociale e intellettuale (un cattolico, un laico, uno scienziato, un industriale…) e si chiede loro di accordarsi e spostare un po’ più in qua o un po’ più in là i limiti al progresso scientifico. Ma questo presuppone, in modo ormai ingenuo, una scienza tradizionale, controllata dalle gerarchie accademiche e concentrata in pochi Paesi. In una scienza globalizzata e multicentrica come quella odierna, imporre dall’alto dei limiti vuol dire spesso far sì che alcune ricerche si trasferiscano semplicemente in altri Paesi dove il problema etico non ce lo si pone proprio.
A livello europeo c’è comunque una contraddizione di fondo sugli obiettivi di queste forme di discussione pubblica. “A parole tutti vogliono superare i modelli tradizionali di comunicazione della scienza, calati dall’alto, basati sull’idea di un pubblico da indottrinare. E così tutti vogliono dialogare con il pubblico. Ma dialogare con quali obiettivi?” E’ difficile, secondo Bucchi, conciliare questa aspirazione al dialogo con la retorica della società della conoscenza, dell’agenda di Lisbona, dell’importanza di fermare la fuga dei cervelli e della ricerca come unica chance per tenere il passo con la Cina. La verità è che l’obiettivo degli organismi europei è migliorare l’immagine della scienza, aumentare le vocazioni scientifiche, facilitare l’innovazione tecnologica. “Così molte iniziative che cercano di mettere in contatto scienza e società finiscono per ricadere in quel tono paternalistico che vorrebbero superare, semplicemente travestendolo con forme di partecipazione pubblica. Ogni tanto sarebbe meglio chiamare le cose con il loro nome e fare serenamente promozione della scienza”.