L’esperienza comune ce lo dice: in generale, rispetto agli uomini, le donne hanno una soglia più bassa e una minore tolleranza al dolore. In altre parole, se vengono pizzicate o punte se ne lamentano prima di quanto fanno i maschi. Non solo: le donne denunciano livelli di dolore cronico più severi, attacchi più frequenti e di maggiore durata degli uomini. Inoltre, sono anche capaci di descrivere meglio la sensazione dolorosa, con parole più appropriate e riconoscendo le differenze tra i molteplici tipi di dolore. Eppure queste differenze, testimoniate anche dai medici nella loro pratica quotidiana, sono state a lungo considerate ininfluenti da chi conduceva la ricerca sui meccanismi del dolore. È forse questa una delle ragioni che spiegano come mai, sebbene questo campo di indagine medica abbia prodotto negli ultimi decenni notevoli risultati, a oggi molte patologie dolorose croniche non sono ancora comprese, e un numero troppo elevato di queste rimangono non adeguatamente curate.
Anche in questo campo, come in molti altri settori della medicina, infatti, i soggetti sperimentali di sesso femminile sono stati raramente studiati a causa degli accorgimenti necessari, certamente non richiesti per il maschio. Uno per tutti: si deve valutare l’età riproduttiva del soggetto e la fase del ciclo in cui lo stiamo testando. Difficoltà che valgono tanto nei modelli animali quanto nelle donne, per le quali è determinante sapere se il soggetto è ancora in età riproduttiva oppure in menopausa, se ha avuto figli o alterazioni del ciclo mestruale. Tutte queste condizioni hanno fatto in modo che le femmine venissero quasi automaticamente escluse dai test sperimentali e clinici, fatto che ha certamente influito sul ritardo che stiamo soffrendo nella comprensione del dolore, e in particolare del dolore cronico.
Infatti, nonostante la scarsa attenzione che ricevono dal mondo della ricerca, sono proprio le donne a soffrire maggiormente di molte sindromi dolorose croniche. L’elenco è lungo. Ci sono prima di tutto le sindromi che colpiscono l’apparato riproduttivo femminile come l’endometriosi o la vulvodinia: malattie molto frequenti e incurabili nella maggior parte dei casi. Oltre a queste sindromi, esistono patologie come la fibromialgia, l’emicrania, la sindrome da fatica cronica, il mal di schiena, la cistite interstiziale che colpiscono in percentuale più le donne che gli uomini.
Se consideriamo in che modo queste malattie colpiscono donne e uomini nell’arco della vita, appare chiaro che per le donne esistono due spartiacque: la pubertà e la menopausa. Durante il periodo fertile le sindromi dolorose si presentano nelle donne in maniera maggiore, prima e dopo, invece, colpiscono le donne in misura paragonabile agli uomini. Queste modificazioni sono scarse o assenti negli uomini. È questo un chiaro segno del ruolo fondamentale degli ormoni gonadici nell’influenzare la presenza del dolore cronico nella donna.
Le differenze di genere nella percezione e risposta al dolore sono quindi da ascriversi alla sola azione degli ormoni? Il dibattito è aperto. Da una parte numerosi studi dimostrano che gli ormoni gonadici non risultano chiaramente coinvolti nella modulazione del dolore sperimentale, specialmente se acuto, cioè di breve durata, come è di solito quello sperimentale; per esempio le fluttuazioni ormonali che si registrano durante il ciclo mestruale non sembrano cambiare la sensibilità a stimoli dolorosi di vario genere sia termici, chimici o meccanici applicati di solito sulla cute dei soggetti. Dall’altra rimane il fatto, clinicamente rilevante, che le donne sofferenti di mal di testa o di altri dolori cronici sentono in maniera importante le variazioni tra le varie fasi del ciclo. Questa discordanza tra i dati sperimentali e quelli clinici ha fatto sì che si sia una inadeguata attenzione verso la funzione svolta dagli ormoni.
Un altro fattore di particolare interesse introdotto negli studi degli ultimi anni sono le interazioni sociali. Si è dimostrato con animali da esperimento come le femmine abbiano comportamenti di ‘attenzione’ verso altri soggetti sofferenti di dolore presenti nella loro gabbia, mentre i maschi non sembrano essere coinvolti. La vicinanza dei soggetti femminili ai loro simili con dolore ha un effetto analgesico, cioè diminuisce i comportamenti di dolore. Una dimostrazione del fatto che la reazione al dolore è davvero una questione di genere, una questione cioè che va al di là delle differenze sessuali e che affonda le sue radici anche nella cultura e nell’educazione. Proprio le diverse sfaccettature nella percezione del dolore – dal comportamento spontaneo e quello alimentare, sociale, sessuale, ecc – ha giocato a sfavore della ricerca delle differenze di genere nel dolore: troppe variabili, troppo complesso lo studio.
Un atteggiamento troppo semplicistico. L’inclusione delle donne negli studi clinici e l’analisi delle loro peculiarità sono essenziali se vogliamo realmente comprendere i meccanismi fisiologici del dolore.
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