Lo scorso week-end è stato piuttosto movimentato per la battaglia fra le major (discografiche e cinematografiche) e i paladini dei software di file sharing, cioè quei programmi che consentono di condividere gratuitamente attraverso Internet qualsiasi tipo di contenuto digitale. Una notizia apparsa su Punto Informatico ha fatto saltare sulla sedia tutti i soggetti interessati. In una sentenza emessa lo scorso 9 gennaio, infatti, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ribaltava il giudizio della Corte di Appello di Torino che affermava la colpevolezza di due ragazzi condannati in 1° e 2° grado per la diffusione e la duplicazione di opere protette da diritto d’autore. I principali quotidiani (per esempio La Stampa e Il Corriere della Sera) hanno pubblicato articoli (sia sulla versione cartacea che on-line) per sancire il ritorno alla musica libera su Internet. La Federazione dell’Industria Musicale Italiana (Fimi), da parte sua, si è invece affrettata a spegnere l’entusiasmo dichiarando che la sentenza non cambia nulla e che “la notizia è stata riportata in maniera distorta ed approssimativa”. Anche la Società Italiana degli Autori e degli Editori (Siae) si è schierata con la Fimi. Chi ha ragione, dunque? Chi crede che la sentenza della Cassazione abbia sancito il downloading libero, gratuito e legale o chi, come la Fimi e la Siae, ritiene che non sia cambiato nulla? Per fare chiarezza Galileo ha intervistato l’avvocato Andrea Monti, presidente dell’Associazione per la Libertà nella Comunicazione Elettronica Interattiva (Alcei).
Avvocato Monti, innanzitutto ricostruiamo la vicenda.
“I fatti risalgono al 1999 quando due studenti del Politecnico di Torino (E.R. e C.F., ndr.) avevano messo in piedi un server Ftp, e non un sistema di file sharing come ho letto, per consentire il download di video, videogiochi e software, e non di musica. L’accesso al server non era pubblico e serviva una password per entrare e scaricare”.
Di cosa sono stati accusati, quindi, i due studenti?
“I due ragazzi sono stati denunciati per diffusione e duplicazione di opere protette da diritto d’autore. Nel giudizio di 1° e 2° grado sono stati condannati, mentre la Cassazione li ha assolti”.
Come mai?
“Il perché è semplice. Come detto i fatti risalgono al 1999, cioè prima della cosiddetta Legge Urbani (risalente all’inizio del 2005, ndr.) che sancisce come illegale non solo la diffusione e il downloading a scopo di lucro, ma anche a scopo di profitto”.
Qual è la differenza fra profitto e lucro?
“La differenza è stata stabilita da una sentenza della Procura di Cagliari del 1996. Per profitto si intende il risparmio che si registra non acquistando, ma scaricando gratuitamente, un’opera protetta da copyright. Per lucro, invece, si intende una vera e propria attività commerciale come per esempio la vendita di materiale protetto scaricato gratuitamente dalla Rete”.
Perché allora nei primi due gradi i ragazzi erano stati giudicati colpevoli?
“Sostanzialmente per un errore. I giudici avevano infatti ritenuto che, tutto sommato, lucro e profitto fossero sinonimi. La Cassazione, invece, ha semplicemente ristabilito una differenza”.
Cosa avrebbero rischiato i due ragazzi?
“Secondo la Legge Urbani da 6 mesi a 3 anni di reclusione (i primi due gradi parlavano di 3 mesi e 10 giorni di prigione, ndr.)”.
Tutto il polverone alzato durante lo scorso fine settimana è frutto quindi di un grosso equivoco: se i due ragazzi avessero agito nel 2007 anziché nel 1999 sarebbero stati condannati?
“Non è detto. Quando si parla di questi temi, a mio parere si dimentica troppo spesso l’equo compenso, una sorta di tassa che i consumatori pagano ogni volta che acquistano un supporto (hard disk, cd, dvd, masterizzatori, scanner e così via) su cui e con il qualie si può registrare un contenuto protetto dal diritto d’autore. I soldi dell’equo compenso finiscono nelle tasche di chi i contenuti protetti li produce. Questa tassa consente di poter registrare una copia di un contenuto protetto da copyright per uso esclusivamente personale (senza cioè che essa possa essere diffusa, per esempio con un software di file sharing) anche se non si possiede l’originale. Se non ci fosse anche questa possibilità sarebbe proibita anche la registrazione di un film o di una partita di calcio con un normale videoregistratore”.