E la barca tornò vuota

Poco più di un mese: è il tempo rimasto all’Unione Europea per varare una riforma della pesca che faccia fronte al “depauperamento drammatico delle sue risorse ittiche”, come ha dichiarato il commissario Franz Fisher nei giorni scorsi, presentando a Bruxelles l’ultimo pacchetto di proposte. Altrimenti, ha ricordato il commissario, non sarà più possibile utilizzare le risorse finanziarie messe a disposizione per il rinnovo della flotta dall’Ifop, il fondo di orientamento per la pesca. Negli ultimi trent’anni le riserve ittiche dei mari europei sono infatti diminuite drammaticamente. Gli esemplari adulti di merluzzo, per esempio, sono dimezzati. Ma sempre più rari sono anche rombi, platesse, sogliole, scampi, rane pescatrici, naselli, merlani, eglefini e sugarelli. Secondo gli scienziati del Ciem, il Consiglio Internazionale per l’Esplorazione del Mare, il livello di catture dei principali stock ittici comunitari andrebbe ridotto da un terzo alla metà di quello attuale, a seconda del tipo di pesce e della zona interessata, in modo da garantire un’attività di pesca sostenibile sul medio e lungo periodo. Diversamente, di questo passo, presto molti stock ittici si esauriranno. Ma la scadenza del 31 dicembre 2002 è un’occasione da non perdere anche perché la maggior parte del settore ittico comunitario è in crisi: 60.000 posti di lavoro in meno nell’arco degli anni Novanta nel comparto catture (-22 per cento) mentre in quello della trasformazione del pescato il calo è stato del 14 per cento. La flotta europea è così in soprannumero rispetto alle risorse locali che, per tenerla occupata, l’Unione deve versare diritti di pesca ad alcune nazioni dell’Africa occidentale. Con tutto ciò, un terzo del mercato ittico europeo è coperto da pesce allevato in acquacoltura.Purtroppo il caso europeo non è unico. Un po’ in tutto il mondo gli oceani si stanno spopolando e i pescatori, per continuare la propria attività, sono costretti a “raschiare il fondo del barile” catturando esemplari sempre più piccoli, nei periodi e nei luoghi di riproduzione e con equipaggiamenti dannosi per l’ambiente. Lo confermano i dati della Fao: molte specie sono state ridotte ai minimi termini, e rasentano l’estinzione. Eppure secondo alcuni esperti la realtà potrebbe essere ancora più grave perché sarebbero troppo ottimistici i dati sulla Cina che, da sola, copre il 35 per cento della pesca mondiale. Anche per questo, negli ultimi tempi gli allarmi degli scienziati e degli ambientalisti si susseguono senza sosta. Persino Nature ha dedicato all’argomento il 17 ottobre scorso un’inchiesta giornalistica che apre con un caso emblematico: nel 1968 al largo di Newfoundland, in Canada, si pescava la cifra record di 800 mila tonnellate di merluzzo l’anno. Ventiquattro anni dopo, nel 1992, l’industria della pesca locale è stata chiusa e 40 mila lavoratori hanno perso il posto o si sono convertiti alla pesca di gamberi o crostacei. Oltre a lanciare allarmi, la scienza sta cercando di fornire gli strumenti per formulare politiche di pesca sostenibile. Finora, infatti, ci si è basati su modelli di valutazione centrati su una singola specie, cercando di individuare quote di pesca che non esaurissero gli stock. Ma le carenze di questo approccio sono notevoli: le stime sulle dinamiche della popolazione ittica sono difficili da fare, con centinaia di parametri da considerare (clima, inquinamento, tempo di permanenza in mare delle imbarcazioni, natura degli equipaggiamenti, temperatura dell’acqua, dinamiche riproduttive, migrazioni), e quindi spesso sono fondate su dati parziali. Non si sa ancora, per esempio, perché, la sospensione della pesca in alcune aree porti vantaggio solo ad alcune specie. L’ipotesi è che in alcuni casi il supersfruttamento delle risorse sia irreversibile. Secondo una ricerca condotta dal canadese Jeff Hutchings nella banca dati ittica più grande del mondo, lo Stock Recruitment Database, alcune specie, come l’aringa atlantica (Clupea harengus), non danno alcun segnale di miglioramento ancora a 15 anni dal collasso degli stock. E Hutchings stesso ha dichiarato a Nature la sua preoccupazione: “se non possiamo fare molto dopo che il danno ambientale è stato fatto, allora dovremmo preoccuparci ancora di più di non scendere al di sotto dei livelli di sicurezza”. Proprio la pesca responsabile è al centro di molti progetti: la Fao, per esempio, ha emanato nel 1995 un codice di condotta che, applicato in alcuni Paesi, sta dando i suoi frutti. Ma come stabilire i limiti di una pesca sostenibile? Secondo alcuni biologi bisognerebbe assumere una prospettiva ecosistemica. Per esempio, studiando meglio la relazione predatore-preda, per spiegare come lo sfruttamento eccessivo di una specie produca danni anche su quelle che le sono connesse nella rete trofica. Oppure studiando i metodi di pesca. E’ noto, per esempio, il danno “collaterale” della pesca dei delfini durante la caccia ai tonni. E ancora: osservando meglio le dinamiche migratorie, riproduttive e di maturazione sessuale delle specie marine. E poi, piuttosto che sospendere la pesca di una singola specie per un certo periodo, potrebbe essere più fruttuoso predisporre larghe aree protette, vietate alla pesca, in cui più la fauna possa riprodursi e crescere senza essere disturbata. Alcune ricerche svolte a Cipro, nel Nord Atlantico, in Florida, e ai Caraibi dimostrano che iniziative del genere, anche temporanee, riescono ad accrescere il pescato nelle aree circostanti la riserva o nel periodo successivo alla protezione. Ma a oggi solo lo 0,01 per cento degli oceani è in qualche modo protetto.

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