In futuro, inquinare le prove potrebbe non servire a nulla, se si tratta di materiale genetico. Una tecnica, infatti, ha permesso di identificare parti di Dna di un individuo in un campione contaminato da quello di altre 200 persone. E anche se il materiale genetico è presente in piccolissime quantità, fino allo 0,1 per cento. Il metodo, sviluppato da un gruppo di scienziati del Translational Genomics Research Institute in Arizona (Usa) e illustrato su PLoS Genetics, si basa sull’analisi del polimorfismo a singolo nucleotide (single nucleotide polymorphisms o Snp) – ossia del mezzo milione di siti in cui il codice genetico di una persona si differenzia da quello di un’altra per una singola base del Dna.
La tecnica messa a punto dai ricercatori prevede di combinare il Dna di varie persone, ottenendo così un “genoma collettivo” che sarà formato da milioni di Snp. Secondo i ricercatori, è possibile stimare – con una percentuale – quanto effettivamente il Dna di un individuo è simile (sulla base degli Snp) ad uno di quelli presenti nel miscuglio.
La possibilità di analizzare gli Snp può avere importanti applicazioni nella medicina forense. Fino a oggi, infatti, non esistono strumenti per identificare una persona nel caso della contaminazione del Dna con quello di altri individui, o della concentrazione di Dna inferiore al 10 per cento del campione.
Ma Peter Gill, della University of Strathclyde, uno dei padri della tecnica (Dna fingerprinting), invita a essere cauti e avverte: “I test effettuati dai ricercatori hanno dato risultati positivi, ma i campioni di Dna analizzati sono intatti e non provengono da casi reali, in cui spesso accade che i reperti siano molto compromessi”. Secondo Gill, inoltre, il problema principale delle indagini non sarebbe tanto determinare se un sospetto sia stato sulla scena del crimine, quanto capire come il suo Dna sia arrivato lì. (e.r.)