Non sappiamo molto dei nostri progenitori preistorici, ma una cosa è certa: erano più magri di noi. Secondo alcuni esperti, oltre ad avere una minore incidenza di obesità, questi uomini ancestrali soffrivano meno anche di patologie come diabete, ipertensione, problemi cardiaci e ictus. Da qui l’idea: perché non adottare la dieta del paleolitico? È la paleodieta, un regime alimentare che negli anni ha conquistato un suo zoccolo duro di affezionati sostenitori. Per questo motivo, un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra ha deciso di verificarne i presupposti scientifici. I loro risultati, pubblicati sulla rivista mBio, dimostrerebbero però che, almeno per dimagrire, la dieta paleolitica sarebbe addirittura controproducente.
Ragionando un po’ sulla questione, è facile rendersi conto che le abitudini alimentari sono tra le cose che ci separano maggiormente dai nostri progenitori preistorici. Se oggi prevale un’alimentazione ricca di cibi energetici, di grassi, e povera di fibre, in passato, quando eravamo popolazioni nomadi di cacciatori raccoglitori, la situazione era probabilmente capovolta. È da quei che nascerebbe l’efficacia dietetica della paleodieta: il sistema che regola l’appetito nel nostro organismo si è evoluto per rispondere ad un’alimentazione primitiva, e andrebbe quindi in tilt con i cibi dell’epoca moderna.
I ricercatori inglesi hanno deciso di verificare questa ipotesi, analizzando in che modo diversi tipi di cibi modificano nell’organismo la produzione degli ormoni che sopprimono l’appetito. Per farlo hanno raccolto campioni di batteri intestinali (o microbiota) da alcuni volontari, confrontandone l’attività con quella di campioni provenienti da babbuini Gelada, l’unica specie di primati esistenti che si nutre unicamente di vegetali ad alto contenuto di fibre. Se l’ipotesi della paleodieta fosse corretta, in presenza di cibi ad alto contenuto di fibre (come quelli disponibili prima dell’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento) i batteri dell’intestino, sia umani che di babbuino, dovrebbero infatti produrre una maggiore quantità di specifiche sostanze, gli acidi grassi a catena corta (SCFA), che hanno la capacità di scatenare il rilascio degli ormoni che regolano l’appetito.
Gli scienziati hanno quindi esposto i batteri a due tipi di dieta: una moderna, ovvero sostanze ad alto contenuto di amido, e una paleolitica, cioè verdure ricche di fibre e cellulosa. Risultato? Non solo i batteri umani hanno dimostrato di produrre maggiori quantità di SCFA in presenza di cibi ricchi di amido, ma lo stesso è risultato vero anche per i batteri intestinali dei babbuini.
Niente da fare dunque, sia per noi che per i babbuini, sazia più un piatto di pasta che uno di verdure scondite. Come sottolineano i ricercatori, la sensazione della fame potrebbe anzi risultare fondamentale per motivare i babbuni Gelada a nutrirsi lungo tutto l’arco della giornata, in modo da ingerire la giusta quantità dei loro cibi naturali, a bassissimo contenuto energetico.
Via Wired.it
Credits immagine: Harsha K R/Flickr