A volte basta un po’ di autosuggestione per sentirsi meglio. È l’effetto placebo, il misterioso alleviarsi di sintomi e malesseri che si sperimenta assumendo sostanze farmacologicamente inerti, quando ci vengono spacciate per medicine. Un fenomeno tanto reale da essere diventato uno degli elementi cardine dei moderni trial clinici, in cui nuovi farmaci e terapie vengono sempre comparati con un gruppo di controllo, per assicurarsi che eventuali benefici che emergono dallo studio non siano frutto, appunto, del solo effetto placebo. Perché funzioni, ovviamente, il paziente deve essere all’oscuro di aver assunto una terapia perfettamente inutile. E in alcuni casi, è più facile a dirsi che a farsi.
Angina pectoris
L’angina pectoris è una condizione causata dalla riduzione dell’afflusso di sangue al cuore, che riduce l’ossigenazione dei tessuti e provoca un dolore nella zona del torace. Negli anni ‘50, in Italia era stata sviluppata una tecnica chiamata legatura bilaterale dell’arteria mammaria interna (o operazione di Fieschi), che consisteva nel legare due arterie nella convinzione che aiutasse a rivascolarizzare il tessuto cardiaco. La tecnica si diffuse in tutto il mondo, fino a quando nel 1959 e nel 1960 due team di chirurghi americani decisero di mettere alla prova la procedura comparandola con la chirurgia placebo. I due gruppi reclutarono i loro pazienti, operarono metà con la tecnica di Fieschi e all’altra metà somministrarono l’anestesia e si limitarono poi a praticare un’incisione sul petto, senza toccare le arterie.
I risultati dimostrarono che la procedura era totalmente inutile. O meglio, che i suoi effetti positivi erano del tutto spiegabili dall’effetto placebo: i pazienti operati con legatura bilaterale dell’arteria mammaria interna infatti ottenevano un miglioramento significativo dei sintomi (il dolore) nel 67% dei casi, ma questo accadeva anche nell’87% dei pazienti sottoposti all’intervento fasullo. L’aspettativa del successo dell’operazione e il rapporto che si crea con il chirurgo sono insomma in grado di spingere il paziente a migliorare da solo, indipendentemente dalla procedura chirurgica, con un’efficacia che sembra raggiungere anche il 35% della risposta che si ottiene con la chirurgia. Esattamente come accade con i placebo tradizionali.
Chirurgia del ginocchio
L’osteoartrite del ginocchio è un’infiammazione cronica che deriva dalla degenerazione delle cartilagini articolari. È favorita dall’età, dalla genetica, dal peso eccessivo, infortuni e operazioni al ginocchio. Può essere affrontata con la fisioterapia, o con la chirurgia: l’intervento si chiama artroscopia, e si effettua per via endoscopica utilizzando delle sonde munite di fibre ottiche che consentono al chirurgo di osservare l’interno dell’articolazione, e di rimuovere selettivamente le parti di cartilagine usurate. A naso dovrebbe funzionare: si rimuovono i detriti che provocano dolore quando muoviamo il ginocchio, e il fastidio migliora o scompare. E invece alla prova dei fatti, l’efficacia dell’intervento stenta ad emergere.
Uno studio del 2002 ha infatti comparato la rimozione artroscopica dei detriti intra-articolari, comparandola con un semplice lavaggio endoscopico dell’articolazione, e con una chirurgia placebo, in cui i medici effettuavano tutte le operazioni necessarie a convincere il paziente di essere stato sottoposto ad un intervento chirurgico, compreso simulare il passaggio di strumenti chirurgici tra l’equipe e i suoni dell’intervento. Risultato: la percentuale di pazienti che sperimentavano una riduzione significativa del dolore è risultato la stessa, a prescindere dalla tecnica chirurgica utilizzata.
Iniezione schiena
Le fratture vertebrali da compressione sono acciacchi piuttosto comuni. Possono essere la conseguenza sfortunata di un incidente, o (molto più spesso) avvenire spontaneamente in caso di osteoporosi. Spesso provocano forti dolori alla schiena che tendono a non migliorare con il tempo. E per questo, si effettua una procedura chiamata vertebroplastica: si inietta un cemento osseo nella vertebra fratturata, che in poco tempo si solidifica, restituisce solidità ed elimina il dolore. L’intervento si fa ormai da anni. Ma nel 2004 un radiologo della Mayo Clinic si è accorto di un problema. Nella sua carriera il medico aveva effettuato centinaia di vertebroplastiche, con risultati eccellenti in termini di soddisfazione dei pazienti. La cosa strana, però, è che anche nelle rare situazioni in cui l’intervento non era andato a buon fine, magari perché il cemento era stato iniettato nella vertebra sbagliata, i pazienti avevano riportato, immancabilmente, una riduzione significativa del dolore.
Qualcosa non tornava, e così il radiologo decise di effettuare un esperimento. Reclutò 131 pazienti con fratture vertebrali osteoporotiche, e trattò metà con la vertebroplastica, e metà con una procedura finta, in cui i pazienti venivano anestetizzati, e veniva persino mischiato il cemento in modo che potessero annusarne l’inconfondibile odore, ma poi invece di effettuare l’iniezione gli veniva solamente premuta la schiena con forza. Ad un mese dall’intervento, i partecipanti sono tornati per una visita di follow up, ed è stato valutato quanto fossero diminuiti dolore e disabilità. Risultato: i due gruppi di pazienti avevano sperimentato risultati paragonabili. Il gruppo trattato con vertebroplastica aveva proporzioni un po’ più elevate di pazienti con un miglioramento del 30% o più del dolore (67%), ma anche quelli del gruppo di controllo non se la passavano affatto male (48%). Tanto da spingere gli autori a concludere che l’efficacia delle due procedure è più o meno la stessa.
Il potere della mente
Secondo qualcuno, l’elevata efficacia della chirurgia placebo dimostra che, in termini assoluti, molte operazioni chirurgiche potrebbero benissimo essere evitate. E chiaramente, è una possibilità che non può essere scartata a priori: rispetto a un secolo fa, oggi la chirurgia è sempre meno spesso un trattamento salva vita d’urgenza, e sempre più una procedura elettiva, rapida, sicura e indolore. Grazie ai progressi tecnologici degli ultimi decenni i chirurghi possono trattare un’enorme quantità di sintomi e disturbi con tecniche mini-invasive. E il moltiplicarsi di procedure può senz’altro aver portato alla diffusione di interventi di per sé limitatamente efficaci, in cui il principale effetto benefico è proprio il placebo.
Quando si parla di chirurgia, però, ci sono moltissimi fattori che influiscono sui risultati. Non ultimo, la bravura del chirurgo che ci opera. E questo rende difficile valutarne l’efficacia nei trial clinici controllati che si utilizzano per i farmaci. Quindi più che concentrarsi sull’efficacia degli interventi, forse è il caso di tenere a mente qual è l’obiettivo, ovvero aiutare il paziente a stare meglio. E in questo senso, che gli effetti siano legati, in tutto o in parte, all’effetto placebo, poco importa. C’è chi però si chiede se non sia il caso di approfittare più direttamente dell’effetto placebo, almeno nei casi in cui iniziano ad esserci indizi concreti che le procedure fittizie sono paragonabili, per efficacia, a quelle vere. È l’opinione di Jeremy Howick, direttore dello Stoneygate Centre for Excellence in Empathic Healthcare dell’università di Leicester, che in un recente articolo pubblicato su The Conversation propone di offrire ai pazienti l’opzione di un intervento placebo in tutti i casi in cui è stato dimostrato un beneficio.
Per rispondere ai dubbi di stampo etico che gli si potrebbero muovere, la sua idea è di fornire l’opzione degli interventi placebo apertamente (come si fa con i cosiddetti placebo “open lable”), spiegando ai pazienti in cosa consistono e ribattezzandoli “operazioni minimamente invasive”, scelta giustificata dal fatto che i benefici potrebbero non essere legati unicamente alla psiche, ma anche agli effetti fisici dell’atto chirurgico in sé, che producendo una ferita spinge il corpo a guarire, innescando una serie di meccanismi molecolari potenzialmente benefici. Verrà preso sul serio? Solo il tempo può dirlo.
Via: Wired.it
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