Avere un mal di testa perenne, imbottirsi di antidolorifici, non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane e temere il giudizio degli altri. I pazienti con emicrania cronica soffrono spesso di almeno uno di questi problemi, senza riuscire però a parlarne, né coi propri cari né col medico. E il risultato è ansia e rassegnazione. “Per questo la narrazione è importante nel rapporto tra il medico e per il paziente: è uno strumento che può migliorare gli esisti terapeutici”, dice Domenico D’Amico neurologo dell’Istituto Besta di Milano. Con i colleghi del Centro Cefalee dell’Istituto milanese, D’Amico ha utilizzato lo strumento narrativo con alcuni pazienti affetti da emicrania cronica che avevano fatto uso eccessivo di farmaci, per poter valutare le differenze con l’anamnesi classica. Lo studio, guidato da Chiara Scaratti e Venusia Covelli, è stato pubblicato su Headache e presentato di recente in un seminario sulla Medicina Narrativa in neurologia che si è svolto presso lo stesso Istituto milanese. Ecco come, alla luce di questi risultati, D’Amico spiega l’importanza del racconto nella cura della cefalea.
Dottor D’Amico, perché è importante conoscere il vissuto del paziente?
La diagnosi di una cefalea primaria, ovvero non causata da altre patologie sottostanti, può avvenire soltanto attraverso ciò che riferisce il paziente, dato che non esistono esami strumentali specifici per accertarla. Per questa ragione, per il neurologo informarsi sul vissuto quotidiano della persona è una pratica di routine.
Come si fa emergere questa realtà soggettiva?
Oltre a domande standard sui possibili sintomi – come frequenza e intensità degli attacchi, se il dolore è pulsante o costrittivo, se è da un lato solo, la presenza di nausea e vomito – è importante che lo specialista si informi sullo stile di vita e su fattori scatenanti o peggiorativi, anche quelli legati alla sfera emotiva. Stress familiare, pressioni lavorative e sociali, traumi di qualsiasi natura possono intervenire nella patologia, nell’uso di farmaci e nell’aderenza ai trattamenti. La scelta di una terapia, farmacologica o meno, si base anche su questi elementi, ed è diversa, per esempio, se il paziente è un pilota di linea oppure se impiega le sue giornate davanti allo schermo del pc.
Rispetto all’anamnesi di routine, la narrazione cosa può aggiungere?
Nello studio pubblicato su Headache abbiamo valutato il confine fra anamnesi classica e impiego di altre modalità espressive, proponendo interviste orali e scritte a pazienti con emicrania cronica ed uso eccessivo di farmaci, un fattore questo che, piuttosto che ridurre i sintomi spesso può peggiorarli e generare una resistenza. Dei 16 partecipanti, di cui 13 donne e 3 uomini – l’emicrania è a prevalenza femminile – ben 7 avevano avuto ricadute nell’uso di troppi medicinali. Il racconto guidato ha permesso di identificare numerosi (circa 22) temi “caldi”, inerenti il vissuto della patologia, che durante una visita tradizionale non sarebbero emersi.
Quali criticità sono emerse?
In primo luogo, in molti pazienti c’è il dilemma di rivelare o meno la propria condizione, in ambito familiare, lavorativo e sociale. Si esita a dichiarare la presenza del disturbo o il fatto che si stanno assumendo molti farmaci per tentare di attenuare il dolore. In particolare, questo secondo aspetto è vissuto come una colpa. Si pensa “sono dipendente dalle medicine” e, temendo lo stigma sociale, si tace e ci si isola. D’altro canto, c’è ansia e stress perché non si riesce a controllare la propria cefalea. Come mostrano alcune evidenze scientifiche, i pazienti con emicrania cronica tendono, mediamente più di altri, a voler essere sempre iperfunzionanti: un tratto di perfezionismo che si scontra con la realtà e con una patologia in certi casi invalidante. E da questo scontro derivano sensazioni negative fino a sintomi depressivi. All’ansia, inoltre, si può associare un atteggiamento di rassegnazione, anche rispetto ai trattamenti, percepiti come inefficaci. Arrivando infine a mettere in dubbio il ruolo del medico e a imboccare strade alternative, con rimedi “caserecci”, spesso non comprovati scientificamente, senza riferirlo al medico.
La narrazioni possono essere utili anche al medico?
Nella mia esperienza acquisire questi nuovi elementi è stato molto importante per capire come comunicare meglio e motivare la persona con emicrania cronica. La conoscenza di questi problemi è importante a mio avviso anche nella scelta della terapia farmacologica (ci sono anti-emicranici con azione antidepressiva) o non farmacologica, dalla mindfulness alla terapia congnitivo comportamentale, che possono aiutare il paziente nella gestione della patologia.
Come si fa a motivare il paziente con emicrania cronica?
La chiarezza è il primo step. Ad esempio, è importante che fin dall’inizio siano chiari e definiti gli obiettivi terapeutici e che questi si adattino quanto più possibile alle aspettative del paziente. La persona deve essere consapevole che non guarirà, dato che non c’è una cura risolutiva, ma che è possibile ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi. Inoltre, è importante smascherare le convinzioni errate, emerse dall’indagine, come la percezione che nulla potrà migliorare, l’inefficacia delle terapie mediche, l’incomunicabilità dei problemi ai propri cari e al medico. Tutte queste false credenze vanno ad intaccare la capacità di reagire e in ultimo la riuscita dei trattamenti.
Quali prospettive emergono da questo studio?
L’idea che emerge è che l’apertura ad un approccio narrativo nel trattamento della cefalea possa essere molto importante e da replicare. Non solo perché migliora la comunicazione e lo stesso rapporto fra medico e paziente ma perché, su larga scala, apre riflessioni più ampie su interventi a livello psicosociale per far conoscere il problema dell’emicrania cronica e combattere lo stigma in ambito lavorativo e sociale.