Quella dell’epatite B è un’epidemia silenziosa. Numeri alla mano, per infezioni, morti correlate, e dati di copertura vaccinale, il ritratto che oggi si potrebbe fare dell’epatite B è quello di una malattia in parte negletta, dimenticata, soprattutto nelle zone dell’Africa subsahariana, anche per l’attenzione riservata anche ad altre malattie virali, in primis dall’hiv, si racconta anche sulle pagine di Nature. Una malattia dei poveri, la chiamano gli esperti, una situazione difficile da combattere anche perché a essere silenziosa è prima di tutto l’infezione, spesso asintomatica. Come potremmo combattere oggi l’epatite B, a dispetto della disponibilità di un vaccino e di terapie efficaci?
Epatite B, la carta d’identità
Gli ultimi dati sull’epatite B resi disponibili dall’Organizzazione mondiale della sanità parlano di circa 257 milioni di persone infettate dal virus nel mondo (l’incidenza in Italia è di 0,6 casi ogni 100 mila persone; 4,7 milioni le persone con infezione cronica in Europa). L‘epatite B è infatti, lo ricordiamo, una malattia virale che colpisce il fegato (il virus dell’epatite B, hbv), trasmessa tramite contatto con sangue o altri fluidi corporei infetti, con modalità diverse: per via sessuale, tramite contatto delle mucose con saliva, liquido seminale e vaginale, riutilizzo di aghi e siringhe infette, condivisione di spazzolini o rasoi. Nelle aree endemiche è comune la trasmissione madre-figlio al momento della nascita e quella tra bambini piccoli, complici le ferite da gioco e le scarse condizioni igieniche.
Se nella popolazione adulta l’infezione generalmente diventa cronica in meno del 5% dei casi, nei bambini sotto i 6 anni è piuttosto comune: fino al 50% dei casi, e fino al 90% in quelli infettati nel primo anno di vita.
Il virus può sopravvivere fuori dal corpo per 7 giorni: questo significa che venirci e a contatto durante questo periodo potrebbe comunque esporre al rischio di infezione.
La maggior parte delle persone non sviluppa sintomi nella fase acuta, anche se possono essere presenti ittero, stanchezza, nausea, vomito e dolori addominali, e nei casi peggiori insufficienza epatica. La maggior parte degli adulti si riprende senza trattamenti specifici e diventa immune al virus dell’epatite B. In altri casi però – e come dicevamo molto più spesso quando le infezioni avvengono nell’infanzia – l’infezione diventa cronica, rimanendo nel corpo a lungo e costituendo un possibile bagaglio per nuove trasmissioni. L’infezione cronica può portare nel tempo a cirrosi e cancro al fegato, ma le terapie antivirali sono efficaci e possono contenere il rischio.
Numeri a confronto
Con oltre 250 milioni di casi al mondo l’epatite B colpisce circa 7 volte tanto l’hiv (sono circa 37 milioni le persone che convivono con questo virus), con un costo in vite umane paragonabile. Sfogliando le stime del Global Health Estimates 2016 dell’Oms sulle cause di morte a livello globale, e mettendo insieme decessi per malattia acuta, cancro al fegato e cirrosi secondarie all’epatite B sono quasi un milioni le vittime del virus, oltre 1,3 milioni considerando anche le morti correlate all’epatite C. L’hiv, per confronto, causa circa un milione di morti l’anno (quasi lo stesso, sebbene colpisca molte meno persone), la tubercolosi quasi 1,3 milioni. Ma se la mortalità per tubercolosi e hiv è in diminuzione, quella per le epatiti virali è aumenta nel tempo, denunciava l’ultimo rapporto dell’Oms sulle epatiti.
“L’hiv è stata una pandemia acuta per cui sono state stanziate risorse – ha commentato a Nature Philippa Matthews, immunologa della University of Oxford – un caso completamente diverso dall’epatite B, che ha accompagnato l’uomo per decine di migliaia di anni e a forza di questa presenza invisibile non ha mai avuto quell’iniezione di sostegno politico, finanziamenti, energia ed educazione che c’è stata con l’hiv”. Tanto che, continua la ricercatrice, in alcuni casi l’accesso alle cure contro hbv sembra essere più semplice nel caso di co-infezione con hiv (sono circa 2,7 milioni le persone con hbv e hiv).
Ma il confronto con l’hiv andrebbe pesato considerando le differenze tra le due infezioni virali, precisa a Wired.it Carlo Ferrari ordinario di Malattie Infettive all’Università di Parma e direttore della struttura complessa di Malattie Infettive ed Epatologia dell’Azienda Ospedaliera di Parma: “Rispetto ai virus dell’epatite B e C, che possono rimanere silenti a lungo prima di causare sintomi e patologie, anche per decenni, quello dell’hiv ha un’evoluzione molto più rapida. Per la sua storia naturale, soprattutto quando non erano disponibili terapie, l’hiv ha catturato attenzione per la rapidità con cui poteva portare a morte”.
Le aree più critiche
A destare particolare preoccupazione nella lotta all’epatite B sono le regioni in cui il virus è più prevalente, soprattutto nell’area subsahariana. E non solo per lo stigma che circonda la malattia (un po’ come per tutte quelle a trasmissione sessuale), la mancanza di conoscenza sulle modalità di trasmissione del virus o le criticità dell’assistenza sanitaria.
A complicare la lotta al virus nelle regioni africane è anche la stessa modalità di somministrazione del vaccino: in tre o quattro dosi, secondo le raccomandazioni dell’Oms, la prima delle quali preferibilmente somministrata come monovalente già nelle prime 24 ore di vita (previsto in Italia nel caso di mamma positiva la virus).
Dagli anni Novanta a oggi le coperture sono aumentate sensibilmente ovunque, con l’Africa però ferma intorno al 70% sui dati di copertura per le tre dosi e intorno al 10% per la prima. Ma, nota ancora Nature, somministrare un vaccino nelle prime ore di vita, in una zona dove molti dei parti avvengono senza assistenza medica e seguire il piano delle vaccinazioni nel tempo rappresenta una sfida. Investire in strategie che favoriscano la somministrazione del vaccino quanto prima – per esempio fornendo alle ostetriche i vaccini preparati o allestendo dei sistemi per il monitoraggio delle gravidanze e delle nascite – potrebbe aiutare ad aumentare le coperture, scongiurando il rischio di cronicizzazione della malattia.
Nella lotta all’epatite B il sommerso, i casi non diagnosticati, rappresentano un’altra grossa problematica. L’Oms stima che solo 22 degli oltre 250 milioni di casi conosca la diagnosi. Lo screening alle future mamme, e da queste ai loro contatti più prossimi, dai partner ai famigliari, vaccinando i non infetti e curando chi ha già contratto il virus potrebbe essere certamente una strategia efficace a più livelli, ha spiegato Matthews. E non stiamo parlando di difficoltà con cui si misura solo l’Africa: un report diffuso nei giorni scorsi dall’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) affrontava il problema delle sottodiagnosi passando in rassegna anche quelle che sono le barriere che impediscono di portare a galla i casi sommersi, come mancanza di consapevolezza, paura di essere discriminati, condizioni di salute o sociali precarie. L’Ecdc sottolineava anche come alcuni approcci per tentare di superare queste barriere avessero dato prova di efficacia nel tempo, quali campagne di sensibilizzazione, educazione o iniziative mirate per gruppi a rischio.
Insieme a tutto questo sarebbe auspicabile lo sviluppo di test diagnostici più economici, magari somministrati insieme a quelli per l’hiv, e il potenziamento dell’accesso alle cure, un altro dei problemi più grandi quando si parla di epatite B. Si stima infatti che solo l’8% di chi conosce il la propria diagnosi ha accesso alle terapie, circa 1,7 milioni di persone. “Si continua a morire di infezione da epatite B, malgrado la disponibilità di un vaccino e di terapie efficaci, che però non raggiungono tutti, anzi“, riprende Ferrari, “la gran parte dei malati non fa terapia e questo significa che può andare incontro a complicanze che possono essere anche mortali”. E se non tutti sono destinati a sviluppare queste complicanze, precisa l’esperto, il dato della mortalità rimane, e diventa ancora più forte considerate le possibilità offerte dalle terapie: “Con le terapie riusciamo a controllare la carica virale e contenendo il virus possiamo controllare anche le malattie correlate; in alcuni casi di cirrosi epatica possiamo addirittura far regredire la malattia”.
Il problema con i farmaci contro l’epatite B, oltre che per l’accesso, è che devono essere presi a vita e che al momento non riescono a eliminare del tutto il virus dal corpo: “Il rischio è che magari un paziente che controlla bene l’infezione, se va incontro a immunosoppressione rischia così anche una riattivazione del virus”, spiega l’esperto: “Lo sforzo della ricerca in questo senso è quello non solo di sviluppare terapie che abbiamo schemi più ridotti di trattamento, ma anche che aiutino a ridurre le tracce di virus che persistono nell’ospite”. D’aiuto sul fronte terapie possono essere anche iniziative che puntino alla riduzione dei costi (come la produzione dei generici).
“E’ un imperativo etico potenziare rapidamente diagnosi e trattamento per questi milioni mancanti [il sommerso della malattia, nda]”, ribadivano in proposito alcuni esperti qualche mese fa in un commento su Nature, “Le lezioni imparate dall’accesso e distribuzione dei trattamenti contro hiv e hcv [il virus dell’epatite c, nda] sottolineano la necessità di partnerships collaborative su scala globale, così come il coinvolgimento di settori pubblici e privati”.
Ma Ferrari è convinto che i trattamenti, per efficaci e distribuiti che siano, possono far tanto, specialmente per la popolazione adulta, ma da soli non possano portare a eradicare la malattia: “La migliore strategia per perseguire questo obbiettivo rimane la vaccinazione a tappeto nei bambini, con riduzione dei costi per la somministrazione del vaccino”.
Via: Wired.it
Il vaccino è sicuramente efficace ma la copertura non dura per tutta la vita…. se viene fatto alla nascita o durante l’infanzia dopo 20-25 anni la copertura potrebbe essere debole ed esporre il soggetto alla malattia.
Dovrebbero esserci dei richiami obbligatori anche in età adulta altrimenti l’eliminazione totale del virus non si avrà mai… considerando anche un probabile aumento dei flussi migratori in un prossimo futuro.
Un paziente che convive con l’epatite