Test clinici prima della vaccinazione, allo scopo di capire se c’è una predisposizione agli effetti avversi: realtà scientifica, promessa di ricerca o folle invenzione? Su questo tema oggi esiste un dibattito, spesso dialettico più che scientifico, a proposito dell’opportunità di sottoporre i bambini a opportuni esami medici prima di iniettare le vaccinazioni pediatriche.
Nonostante si tratti di un filone di ricerca promettente, occorre distinguere tra risultati scientifici – al momento del tutto assenti – e speculazione. Valutando stato dell’arte della ricerca, sottoporre un bambino a un esame prevaccinale è attualmente inutile.
La farmacogenetica e la farmacogenomica sono le due discipline che, già da prima della grande attenzione dedicata ai vaccini, studiano in generale il legame tra la genetica e la reazione degli individui ai farmaci, mescolando le conoscenze della farmacologia con i risultati degli studi sul DNA. Oltre alle applicazioni alla medicina personalizzata, dal decennio scorso sono iniziate le pubblicazioni di studi scientifici che indagano le applicazioni sia in campo vaccinale sia nel caso specifico degli effetti avversi. In proposito è anche stato coniato un neologismo per identificare la disciplina di ricerca: adversomica.
Ma quali sono i risultati? A oggi, pochissimi. Dopo le prime pubblicazioni del 2009 che definivano come promettente il campo dell’immuno-genetica applicata ai vaccini e pronosticavano un roseo futuro per questa branca di studio, gli scienziati non sono ancora riusciti a stabilire correlazioni certe tra la presenza di determinate caratteristiche genetiche e l’insorgenza di effetti avversi.
Le ipotesi alla base della ricerca non si sono però rivelate prive di fondamento. Sono già stati dimostrati legami con genetica per quanto riguarda il legame virus-cellule, la penetrazione cellulare, i meccanismi di riconoscimento e la risposta immunitaria, toccando nel complesso molte malattie tra cui parotite, morbillo, rosolia, influenza, epatite B e vaiolo. Ma per le intolleranze ai vaccini, ancora nulla.
I limiti attuali allo sviluppo dell’adversomica derivano soprattutto dal numero molto esiguo di soggetti studiati, dovuti a loro volta all’estrema rarità di casi registrati di effetti avversi. E non si tratta nemmeno di una questione di fondi: la complessità della risposta immunitaria, la varietà genetica etnica e le interazioni tra geni rendono estremamente complessa l’individuazione di trend e correlazioni, soprattutto se i risultati devono essere sottoposti a una rigorosa valutazione statistica.
Grazie anche al proliferare di movimenti AntiVax e FreeVax, però, l’adversomica sta ricevendo un forte spinta a livello sociale, stimolata dalla richiesta (spesso generica) di aumentare la sicurezza vaccinale. Tuttavia, per essere chiari, a oggi non esistono prove scientifiche che i test genetici possano – né che potranno con certezza in futuro – dare indicazioni ai medici. Mancano sia ricerche che dimostrino il legame tra genetica ed effetti avversi, sia studi che confutino questa ipotesi.
Allo stesso modo, non esistono correlazioni dimostrate tra l’esito di esami clinici d’altro genere e la comparsa di effetti avversi. Un esame del sangue o delle urine più o meno approfondito, un’analisi dei tessuti, una caratterizzazione del metabolismo – o qualunque altro criptico test medico – non può predire in alcun modo la reazione di un bambino alla somministrazione del vaccino. Purtroppo, spesso chi propone questi test a pagamento ne ricava in qualche modo un beneficio economico.
Che fare allora? Per il momento, la scelta di non sottoporre un bambino a vaccinazione è affidata al pediatra, che dovrebbe assicurarsi dell’assenza di condizioni cliniche tali da rendere inopportuna l’inoculazione. Anche se occorre fare distinzioni tra i diversi tipi di vaccino, l’esempio tipico riguarda il caso di pazienti con un serio deficit immunitario, dovuto a una grave patologia oppure a un trattamento medico in corso. Si tratta però di casi estremamente rari mentre, spiegano i pediatri, in generale la vaccinazione è ancora più importante per quei bambini ritenuti fragili.
Articolo prodotto in collaborazione con il Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara