Fame di terre rare

La Cina produce da alcuni anni oltre il 95 per cento del fabbisogno mondiale di terre rare, che nell’industria trovano numerosi impieghi: nei magneti, nei catalizzatori, nelle batterie, nei fosfori dei Led, ecc. Si tratta di elementi di difficile approvvigionamento, non tanto perché “rari” quanto perché estrarli dai minerali non è impresa facile e soprattutto pone problemi ambientali. E per questo la Cina incontrò un grande successo quando diversi anni fa prese ad esportarli a prezzi assai inferiori rispetto a quelli dei produttori degli altri paesi. Conducendo però all’interruzione della produzione in gran parte del resto del mondo, in particolare in Australia, in Canada e negli Stati Uniti, con la chiusura delle miniere.

Tuttavia nel 2010 la situazione cambiò radicalmente quando la Cina pose forti restrizioni all’esportazione delle terre rare, iniziando con il blocco delle esportazioni a Sony e Matsushita: una azione che venne interpretata in termini di “guerra fredda”, sebbene le motivazioni del governo cinese riguardassero le problematiche ambientali collegate a questi minerali. Avvenne così che i prezzi sul mercato internazionale aumentarono di oltre un ordine di grandezza, con il risultato di mettere in crisi la competitività di tutte le industrie i cui prodotti richiedono l’impiego delle terre rare, creando posizioni di grande vantaggio per le corrispondenti industrie cinesi.

Sicché nel marzo 2012 gli Stati Uniti, i paesi europei e il Giappone si sono rivolti al WTO, Organizzazione Mondiale del Commercio) perché intervenga a sanare il problema. Problema che in effetti non riguarda soltanto le terre rare ma anche altri elementi, come il molibdeno e il tungsteno. E che potrebbe avere ricadute estremamente indesiderabili se l’attività di estrazione di questi elementi dovesse localizzarsi in paesi con scarsa attenzione ai diritti dei minatori e al rispetto delle norme ambientali, o addirittura dove si possano replicare le tragiche vicende che hanno riguardato l’estrazione del coltan nell’Africa centrale.

Il prodotto industriale maggiormente minacciato dalla scarsa disponibilità delle terre rare è rappresentato dai magneti permanenti ad alte prestazioni, che trovano oggi innumerevoli impieghi, fra cui i dischi fissi (hard-disk) dei calcolatori, i motori delle automobili elettriche e i generatori elettrici usati nelle turbine eoliche: due settori, questi ultimi, che proprio in questi anni sono in fortissimo sviluppo e per i quali si prevede una crescita assai vivace anche nel medio termine. I magneti permanenti che impiegano leghe a base di neodimio producono infatti campi magnetici fino a dieci volte maggiori dei magneti tradizionali mentre la presenza di disprosio contribuisce ad evitarne la demagnetizzazione alle alte temperature. E così si realizzano motori e alternatori molto affidabili e di dimensioni assai contenute.

Per affrontare la penuria, e gli alti costi, di questi materiali si stanno percorrendo varie strade. Non soltanto riaprendo le miniere che erano state chiuse, ma anche sviluppando materiali alternativi, modificando i criteri seguiti nella progettazione dei dispositivi elettromeccanici, recuperando i magneti nascosti all’interno dei prodotti di scarto (telefonini, condizionatori d’aria, calcolatori).

Particolarmente intense sono le ricerche sui materiali magnetici alternativi, nelle quali vari stati stanno investendo somme considerevoli (150 milioni di dollari in Giappone nel 2011). Alcune di queste ricerche mirano a sostituire completamente le terre rare, altre a ridurne le quantità mantenendo prestazioni accettabili. Per esempio tornando a riesaminare le leghe a base di ferro e cobalto, usate in passato, per modificarne appropriatamente la struttura cristallina, o ricorrendo alle nanotecnologie per realizzare magneti nanocompositi. E Toyota ha lanciato un programma volto a sostituire i magneti permanenti usati nelle auto elettriche con elettromagneti, nonostante questi ultimi siano alquanto più ingombranti e richiedano l’impiego di quantità non trascurabili di rame.

I futuri pacemaker

Lo stimolatore cardiaco (pacemaker) è un apparecchio ormai piuttosto comune – in Italia se ne impiantano oltre 60mila ogni anno – che tuttavia richiede di essere alimentato elettricamente. E le batterie a ciò previste, che fra l’altro occupano la maggior parte del volume di questi oggetti, vanno sostituite tipicamente ogni 5-10 anni. Ma sono in corso numerose ricerche mirate a superare questo inconveniente affidandosi a fonti di energia “interne” per ottenere la potenza elettrica necessaria, che d’altra parte è modestissima, fra 1 e 10 microwatt.

Alcune proposte riguardano l’impiego di celle a combustibile (fuel cell) che utilizzano il glucosio presente nel sangue, altre prevedono di usare materiali piezoelettrici (ma i piezoelettrici più efficienti contengono piombo e quindi vanno gestiti con estrema cautela) per convertire in elettricità l’energia meccanica proveniente dalla respirazione o dal moto della persona, altre ancora suggeriscono l’impiego di microturbine da inserire in una arteria (ricordando qui che la potenza idraulica del cuore ammonta a circa un watt, molti ordini di grandezza rispetto a quanto occorre).

Una delle proposte più recenti, pubblicata su Applied Physics Letters (vol. 100, 042901, 2012) proviene da due studiosi dell’Università del Michigan, M. Amin Karami e Daniel J. Inman. L’idea è quella di sfruttare le vibrazioni del battito cardiaco nei tessuti che si trovano nei pressi del cuore per ottenere una potenza elettrica media maggiore di 10 microwatt. Le soluzioni proposte sono due. La prima riguarda la cattura dell’energia meccanica usando una lamina piezoelettrica conformata a zig-zag con spessore di un quarto di millimetro. Però con l’inconveniente di una forte sensibilità rispetto alle variazioni della frequenza cardiaca. L’altra soluzione prevede invece l’impiego di un dispositivo non lineare, che combina un elemento piezoelettrico e dei magnetini per costituire un oscillatore di Duffing. E tale soluzione, come mostrano i risultati delle prove sperimentali, presenta il vantaggio di essere assai meno sensibile alle variazioni della frequenza cardiaca.

Credit immagine a Peggy Greb, US department of agriculture/Wikimedia Commons

Questo articlo è stato pubblicato con il titolo “Fame di terre rare” sul numero di giugno di Sapere. Ecco come acquistare una copia della rivista o abbonarsi on line. 

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