Esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento: questo settore – oggetto per legge di un rapporto annuale del Consiglio dei Ministri – sembra non conoscere crisi. Anzi, il nostro paese, tra i principali produttori, negli ultimi anni sta vivendo un vero e proprio boom. Ma a conti fatti, per lo stato italiano sarebbe più conveniente che Finmeccanica dicesse addio alle armi e si dedicasse alle produzioni civili. Una riconversione non semplice ne’ rapida e indolore, ma comunque possibile e certamente conveniente in termini di occupazione e di crescita economica.
Nel 2008, il Mae (Ministero degli Affari Esteri) ha rilasciato 1.880 autorizzazioni (nel 2007 erano 1.391) all’esportazione di materiale d’armamento. Il valore delle esportazioni definitive è di 3.046.103.844,95 euro (2.369.006.383 euro nel 2007). A queste vanno aggiunte le autorizzazioni all’esportazioni legate ai programmi intergovernativi il cui valore, nel 2008, è pari a 2.688.011.344,96 euro (1.846.165.869 euro nel 2007). Rispetto al 2007, il valore delle esportazioni definitive, escluse quelle derivanti dai programmi intergovernativi, si è incrementato del 25,58 per cento.
Se, invece, sommiamo i due tipi di autorizzazioni il valore totale sale a 5.734.115.189,91 milioni di euro. Questo importo fa balzare il nostro paese al secondo posto mondiale per ordini ricevuti nel 2008, anche se gli Usa rimangono inarrivabili.
Le autorizzazioni sono suddivise in tre fasce: valore limitato (fino a 10 milioni di euro), valore medio (tra 10 e 50 milioni di euro), valore rilevante (oltre i 50 milioni di euro). L’analisi di dettaglio indica che la quasi totalità (96,64 per cento) riguarda vendite dal valore inferiore a 10 milioni di euro: 1.409 autorizzazioni per un valore di 906,46 milioni di euro, equivalente al 15,81 per cento delle esportazioni. Il 3,96 per cento delle autorizzazioni rientra nella fascia intermedia: 59 autorizzazioni per un valore di 1.225,11 milioni(il 21,88 per cento delle esportazioni), mentre l’1,41 per cento (21 autorizzazioni per un valore di 3.573,55 milioni, corrispondenti al 62,31 per cento delle esportazioni) riguarda materiale il cui valore è superiore ai 50 milioni.
L’elevato numero di autorizzazioni per un valore fino a 10 milioni indica che l’Italia esporta un gran numero di componenti e parti di ricambio. Il lieve incremento delle autorizzazioni il cui valore eccede i 50 milioni indica che il nostro paese ha iniziato ad esportare sistemi d’arma completi e ad operare come integratore di sistemi. La principale commessa riguarda 51 elicotteri d’attacco da fornire alla Turchia; questo paese è stato il principale destinatario di armi italiane nel 2008.
Nel 2009, il MAE ha rilasciato 2.181 autorizzazioni all’esportazione di materiale bellico per un valore è pari a 4.914.056.415,83 euro oltre ad autorizzazioni all’esportazione legate ai programmi intergovernativi pari a 1.820.999.702,61 euro. Rispetto al 2008, il valore delle esportazioni definitive, escluse quelle derivanti dai programmi intergovernativi, si è incrementato del 61,32 per cento, segnando una notevole crescita rispetto ai trend passati. Se, invece, sommiamo i due tipi di autorizzazioni il valore totale sale a 6.735.056.136,44 euro; il nostro paese, così, consolida la posizione appena raggiunta di secondo paese al mondo per ordini ricevuti.
L’analisi di dettaglio evidenzia che: il 94,27 per cento delle autorizzazioni è relativo a materiali di valore inferiore a 10 milioni di euro, per un ammontare complessivo di 1.071,93 milioni di euro, paria al 15,92 per cento del valore totale delle esportazioni definitive autorizzate; il 4,43 per cento delle autorizzazioni è relativo a materiale di valore compreso fra i 10 e i 50 milioni di euro, per un ammontare complessivo di 1.684,34 milioni di euro, pari al 25,01per cento del valore totale delle esportazioni definitive autorizzate; il l1,30 per cento delle autorizzazioni, corrispondenti a 22 autorizzazioni, è relativo a materiali di valore superiore a 50 milioni di euro, per un ammontare complessivo di 3.978,79 milioni di euro, pari al 59,08 per cento del valore totale delle esportazioni definitive autorizzate. A farla da padrone è la commessa per la fornitura all’Arabia Saudita, tramite il Regno Unito, del velivolo Eurofighter.
Dietro ogni operazione commerciale, soprattutto nel settore militare, importante è il ruolo rivestito dalle banche. Questo settore è da sempre poco analizzato anche perché le banche tendono ad essere molto riservate. Negli ultimi anni, grazie al ruolo attivo della campagna Banche Armate, qualcosa si sta muovendo e nonostante la lista degli istituti di credito non sia più contenuta nel rapporto della 185/90 si riesce ad avere le informazioni necessarie per poter redigere la lista.
La spesa militare non conosce crisi
Gli attori principali nella definizione della spesa militare italiana sono tre ministeri (Ministero dell’Economia e delle Finanze – Mef, Ministero della Difesa, Ministero dello Sviluppo Economico – Mse) e l’apparato militare, che stabilisce i programmi sulla base di strategie che tengono conto delle così dette minacce esterne e degli obiettivi di proiezione di potenza.
Lo stanziamento complessivo per il Ministero della Difesa è stato nel 2009 pari a 20.294 milioni di euro, in diminuzione di 838,1 milione di euro, pari al 4 per cento del totale, rispetto al 2008. La spesa si compone di più voci:
- funzione difesa, che riguarda le componenti terrestri, aeree e navali delle forze armate, e ammonta a 14.339,5 milioni di euro, segnando una contrazione di 1.068,8 milioni di euro pari al 6,9 per cento del totale rispetto al 2008;
- funzione sicurezza, che riguarda l’arma dei carabinieri per le attività che ricadono all’interno delle competenze del dicastero della Difesa, che ammonta a 5.528,2 milioni di euro, con un aumento di 148,1 milioni di euro pari al 2,8 per cento in più rispetto al 2008;
- funzioni esterne, cioè quelle attività non direttamente collegate con i compiti istituzionali di difesa come l’approvvigionamento idrico per le isole minori o voli di Stato, ammonta a 116,4 i di euro, segnando un aumento di 4,2 milioni di euro, pari 3,4 per cento, rispetto al 2008;
- trattamento di ausiliaria, cioè il trattamento di quiescenza del personale che ha cessato il servizio permanente ed è collocato in ausiliaria, prima che il relativo onore sia assunto dagli organi previdenziali, è pari a 309,2 milioni di euro e segna un aumento di 78,4 milioni di euro pari ad un incremento del 34 per cento.
A sua volta, la funzione difesa si suddivide in tre voci: personale, esercizio e investimento; la ripartizione ottimale dei fondi si ha nel momento in cui essi risultino assegnati per il 50 % al personale e per il restante 50 per cento all’esercizio e investimento.
Il budget della difesa italiana è stato tagliato molto meno di quanto si voglia far credere: alle cifre su esposte bisogna aggiungere:
80 milioni di euro presenti nel fondo spese correnti e destinati alla difesa; un miliardo di euro all’anno per il 2010-11 inseriti nel fondo per la realizzazione dei programmi di investimento pluriennali per esigenze della difesa
1 miliardo di euro stanziati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per le missioni all’estero (di cui solo il 10 per cento per interventi di cooperazione allo sviluppo e missioni umanitarie). Altri 470,8 milioni che si trovano nel fondo per le spese di organizzazione e finanziamento dei servizi di sicurezza, includendo le spese riservate, mentre 379,6 milioni sono stanziati dal Mse e si trovano nel fondo per interventi agevolati alle imprese, solitamente devoluto per intero all’industria aeronautica ed aerospaziale operante nel campo delle tecnologie duali;
1.359,7 milioni proveniente dal Mse e destinanti ad interventi agevolativi per il settore aeronautico.
Ancora: ai 180 milioni destinati ad interventi per lo sviluppo e acquisizione delle fregate FREMM va poi aggiunta una serie di fondi che vengono esplicitati attraverso l’emanazione di decreti ad hoc. Il Mse fornisce anche un fondamentale apporto di fondi per la prosecuzione di numerosi programmi per l’acquisto di armamento, che nella funzione difesa rientrano sotto la voce investimento.
Il 2010, in barba alla crisi economica, è rimasto in linea con gli altri anni, con un aumento di spesa per il solo Ministero della Difesa di 63 milioni rispetto al 2009. La funzione difesa dovrebbe ammontare a 14.280 milioni, raggiungendo un incidenza sul Pil pari allo 0,90 per cento. Le altre voci del budget alla difesa sono:
funzione sicurezza, la spesa per arma dei carabinieri, pari a 5.594,3 milioni di euro, segnando un aumento di 65,2 milioni di euro pari all’1,2 per cento;
funzioni esterne 164 milioni di euro, in aumento di 47,6 milioni di euro pari al 40,9 per cento rispetto al 2009;
funzioni di ausiliaria, 323 milioni di euro, con un incremento di 14,6 milioni pari al 4,7 per cento.
A questi fondi vanno sommati: 573,6 milioni di euro stanziati dal Mse tramite il fondo per interventi agevolativi alle imprese; 1.384,7 milioni di euro stanziati dal Mse tramite il fondo interventi agevolativi per il settore aeronautico; 510 milioni di euro stanziati dal Mse per l’acquisto delle fregate FREMM; un miliardo di euro stanziato dal Mef, se mantiene gli impegni di spesa, per il finanziamento delle missioni all’estero.
Il budget italiano alla difesa facendo i dovuti conti al posto di diminuire, come il governo vorrebbe far credere, lievita fino a raggiungere i 23,5 miliardi di euro.
Eurofighter, un cacciabombardiere fallito
Tra i programmi d’armamento più costosi della storia vi è il velivolo da combattimento Eurofighter 2000 (Efa 2000). Il programma Eurofighter ha inizio nel 1986 con la partecipazione di Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Esso ha come obiettivo la costruzione di un cacciabombardiere, mono e biposto, affidabile e moderno. Nel 1986 si stimava che il programma finisse nel 2014 con la consegna di 620 velivoli così ripartiti: 232 alla Gran Bretagna, 180 alla Germania, 121 all’Italia (a sostituire i vecchi F-104) ed 87 alla Spagna (16).
Lo sviluppo e la produzione sono affidati a due consorzi, Eurofhigter Gmhb (17) ed Eurojet (18).; il costo del progetto era stimato in circa 15.759 miliardi di lire, più di 150 miliardi ad aereo se includiamo i costi di progettazione pari a 3.000 miliardi di lire. Il costo del progetto, ora che ci avviamo alla fase conclusiva, ammonta a circa 18,1 miliardi di euro, cifra parecchio superiore rispetto alle stime iniziali. L’aumento dei costi è da attribuire, in gran parte, alla esclusione nei contratti di vendita del costo degli armamenti, dell’avionica, del supporto logistico, della piattaforma tecnologica e di tutti gli altri “accessori”.
Data la lunga durata del progetto ed il costo elevato ci si aspetta che le camere del Parlamento esercitino un controllo costante sul programma, ma così non è. L’unica volta che il Parlamento si è occupato di questo progetto è stato nel 1997, quando la Commissione Difesa di Camera e Senato dette parere positivo alla prosecuzione del contratto.
Dell’Eurofighter si è invece interessata la Corte dei Conti, la quale ha fatto una analisi impietosa del programma criticandone ritardi e costi. I ritardi nella consegna hanno obbligato il nostro paese a spendere 500 miliardi di lire per acquisire dei Tornado inglesi ed oltre 1.500 miliardi di lire per acquisire degli F16 statunitensi. Tali acquisti si sono resi necessari poiché l’aviazione ha pensionato in blocco gli F-104 senza avere un numero sufficiente di Efa con cui sostituirli.
Nella finanziaria del 2008 furono stanziati 5,4 miliardi di euro fino al 2012, garantendo così gli impegni di spesa presi per portare a termine la seconda tranche. Per quanto riguarda la terza tranche sembra che i costi siano destinati ad aumentare a causa dell’incremento dei costi di alcuni “sistemi” e alle spese di ammodernamento. Si arriverebbe così a 2,16 miliardi di euro per l’Italia, 5,8 miliardi di euro per la gran Bretagna, 1,99 miliardi per la Germania ed 820 milioni per la Spagna.
Visti gli aumenti, il nostro paese ha chiesto al consorzio Eurofighter di calcolare il costo di una revisione della sua partecipazione alla produzione del nuovo aereo. Tale scelta può significare che l’Italia intende ridurre sensibilmente il numero degli aerei da acquisire se non cancellare totalmente la terza tranche. La Gran Bretagna prima di firmare il contratto per la fornitura della terza tranche ha ottenuto, dopo intense trattative, di vendere 24 dei propri Efa all’Arabia Saudita e sembra che anche l’Italia voglia seguirla vendendo 24 dei propri Eurofighter a paesi quali la Bulgaria e la Romania. Il contratto per la terza tranche è stato infine firmato ed ha un valore complessivo di 9,1 miliardi di euro e prevede la fornitura di 112 aerei di cui 21 per l’Italia a fronte dei 46 previsti. I caccia consegnati, a fine programma, saranno 559 rispetto ai 620 stimati nel 1997. Ad aggravare il quadro contribuisce il fatto che soli 127 caccia siano attualmente operativi presso le forze aeree dei paesi aderenti al programma.
Tirando le somme, il programma Eurofighter è stato caratterizzato dalla totale assenza di controllo parlamentare nonostante i costi via via crescenti: il costo finale è pari a più del doppio rispetto a quanto stimato nel 1986, 18,1 miliardo di euro a fronte di 15.759 miliardi di lire. Inoltre, la riduzione dei velivoli ordinati e la vendita di alcuni di essi fa capire che il mezzo non soddisfa le richieste delle forze aree. Dopotutto il progetto Eurofighter va avanti senza alcun cambiamento dal 1986, ed in ambito internazionale di cose ne sono cambiate da allora.
Nulla è poi la ricaduta industriale del progetto in Italia, dove non si ha alcun beneficio reale in termini sia finanziari che occupazionali. Rifacendosi all’ultimo contratto firmato nel 2009, che dà avvio alla terza tranche, lo Stato italiano spende 1,7 miliardi di euro. La ricaduta industriale per Finmeccanica è pari a 2,9/3 miliardi di euro, di cui però solo 1,6 miliardi sviluppati nel nostro paese, il resto in Gran Bretagna. Se a questi dati si aggiunge la partecipazione di Avio nel consorzio Eurojet, si ottiene una stima di ricaduta complessiva sulle aziende del nostro paese pari o addirittura inferiore a quanto lo Stato italiano andrà a pagare. In termini occupazionali, si è passati dalle favoleggianti stime di 24mila nuovi occupati in tutta Europa a stime ben più modeste. Basti pensare che nel nostro paese i lavoratori che si occupano a tempo pieno del progetto sono appena seimila e vanno ad aggiungersi agli oltre 12.500 occupati di Finmeccanica ed Avio, che però partecipano a più progetti.
Questi dati dimostrano come un programma d’armamento, qualsiasi siano i costi e gli investimenti che richiede, produca per il paese interessato un peggioramento complessivo delle finanze, senza procurare apprezzabili cambiamenti nell’occupazione. In pratica si ha tutto da perdere e nulla da guadagnare (19). Le imprese di Finmeccanica che partecipano a questo progetto sono: Alenia Aeronautica, Selex Galileo, Alenia Aermacchi, Selex Communication, Siro Panel, Mbda.
A conti fatti
A porre in risalto per primo i rischi di un eccessivo contatto tra il mondo politico ed i manager che operano nel settore della difesa fu Dwight David Eisenhower nel suo ultimo discorso da presidente: «Dobbiamo guardarci, nelle sedi decisionali del governo, dall’acquisizione di influenze ingiustificate, volute o meno, da parte del complesso militare industriale. Il potenziale per una disastrosa ascesa di un potere nelle mani sbagliate esiste e persisterà» (20).
Queste parole di Eisenhower, profeta inascoltato, suggeriscono un confronto tra la crescita economica basata sullo sviluppo ed una crescita parassitaria. La prima si basa sull’espansione di beni e servizi usati per il consumo o la produzione di altri beni; la seconda riguarda prodotti inutili per il consumo o l’investimento che, tuttavia, viene tradotta in termini monetari. Nonostante la produzione militare sia parassitaria, essa viene inclusa nel calcolo del Pil di un paese. In questo modo, le produzioni di guerra hanno nascosto il declino delle produzioni civili, e nell’ignorare questo, i manager statunitensi ed europei hanno stabilito una politica che ha devastato l’industria manifatturiera, specie quella dei beni capitali, le infrastrutture e la società intera (21).
E’ ancora Eisenhower, parlando nel 1953 alla Società Americana Editori di Giornali, ad ammonirci: «Ogni arma che si costruisce, ogni nave che parte, ogni razzo che viene sparato rappresenta in fondo un furto per coloro che soffrono la fame e non hanno da mangiare, per quelli che hanno freddo e non hanno vestiti. Questo mondo in armi non sta solo spendendo soldi, spende il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati e le speranze dei propri figli. Il costo di un moderno bombardiere pesante equivale a quello di una nuova scuola in più di 30 città; di due centrali elettriche, ognuna capace di servire due città di 60.000 abitanti; di due ospedali completamente equipaggiati; di circa cinquanta miglia di autostrade. Paghiamo per un unico aereo da caccia 14 milioni di tonnellate di grano. Per un solo caccia torpediniere paghiamo l’equivalente di nuove case che potrebbero ospitare 8.000 persone. Ripeto, questo è lo stile di vita migliore che si può trovare sulla via che ha preso il mondo. Ma questo non è, sotto alcun aspetto ragionevole, uno stile di vita. Sotto la minaccia di una guerra incombente, l’umanità pende da una croce di ferro» (22).
Questi discorsi risalenti a un’epoca relativamente lontana sono pur sempre attualissimi e ci fanno comprendere quando il mondo sia instabile: ad oggi le spese militari mondiali hanno superato ampiamente quelle della Guerra fredda (23).
La riconversione possibile che non si fa
Una soluzione a tutto questo è possibile? La risposta è sì e si chiama “riconversione” della produzione. Prima di addentrarci nell’analisi di questo fenomeno, sfatiamo un mito: essa non è un fenomeno rapido e con costi elevatissimi ed insostenibili. In Europa dal 1994 al 2001, il programma Konver mette a disposizione fondi rilevanti per la riconversione delle produzioni militari nelle aree maggiormente dipendenti da essa. Il programma ottiene dei risultati concreti anche in Italia, si pensi al percorso della Valsella (24). Nell’area di La Spezia, dove opera, tra le altre aziende, l’Oto Melara, il peso dell’occupazione nei settori militari sul totale passa dal 9,6 per cento del 1991, al 2,8 per cento del 2004; anche grazie ai fondi del programma europeo Konver (25).
Gli articoli 1 e 8 della legge 185/90 contengono delle disposizioni sulla riconversione delle produzioni militari. Purtroppo, in Italia siamo bravi a fare le leggi ma non a metterle in pratica e così le misure sulla riconversione non sono mai state utilizzate. A livello regionale la Lombardia nel 1994 si è dotata di una legge in merito, ma anche in questo caso i risultati sono davvero trascurabili.
E Finmeccanica? La società italiana, oggi, ha un business totalmente incentrato sul settore militare. Non è stato sempre così ed in parte non lo è tutt’ora, se pensiamo all’Ansaldo, società operante da sempre nel mercato civile e che, nel 1973, salvò il gruppo dalla bancarotta. Per sviluppare maggiormente le sue capacità nella produzione di impianti energetici, l’Ansaldo potrebbe avviare una collaborazione molto forte con Eni. Questo permetterebbe di istituire, a livello nazionale, un nuovo piano energetico di cui il nostro paese ha tanto bisogno. Ad essa bisogna aggiungere Telespazio società leader nei programmi spaziali, in cui il peso del fatturato militare è minoritario rispetto al mercato civile. Senza trascurare le grandi capacità di Alenia, la quale potrebbe sviluppare molto meglio il suo potenziale consolidando le collaborazioni con Airbus e Boeing, ed investendo in maniera prioritaria nel settore civile.
Le imprese a maggiore produzione militare, come le Selex, potrebbero applicare tutte le loro conoscenze nel campo della sensoristica e comunicazione civile. La Agusta Westland ha già un grande mercato civile su cui appoggiarsi e quindi con una strategia ben pianificata potrebbe, senza eccessivi scossoni, passare totalmente al civile. Come si nota non si tratta di snaturare una società e le attività che essa svolge ma semplicemente di spostare il focus dal campo militare a quello civile.
Il processo di riconversione non sarebbe rapido e nemmeno indolore. Per portarlo a termine, servirebbero nuove idee politiche bisognerebbe trovare una dirigenza illuminata di Finmeccanica ed anche sindacati disposti ad accettare, in un primo momento, una riduzione dell’occupazione.
Anche in periodo di crisi, le società che assumono sono proprio quelle che investono di più, ed in modo oculato, i propri fondi in attività nuove ed in settori tecnologicamente avanzati. Non a caso in paesi come Usa, Giappone, Cina, Germania ed altri, si è creato una sorta di circolo virtuoso fatto di investimenti, pubblico privati, nel settore dell’energia ed in particolare della produzione energetica da fonti rinnovabili. Questo è un argomento snobbato in Italia, che perde così una grande occasione.
Alcuni colossi della difesa, come la Lockheed Martin, una tra le più grandi imprese militari a livello mondiale, iniziano ad applicare le loro conoscenze ingegneristiche a questi settori. L’impresa statunitense, oggi è un importante fornitore di programmi d’efficienza energetica e continua la ricerca e lo sviluppo in questo settore per accaparrarsi ulteriori fette di mercato; stessa cosa stanno facendo anche Raytheon e Saab. La ditta svedese, in particolare, investe in alcuni settori correlati come ad esempio il recupero energetico ed i rifiuti.
L’Italia ha tutte le carte in regola, anche grazie alla sua posizione geografica, per essere leader mondiale in tutti questi settori. È vero, numerosi errori sono stati fatti, ma non imparare da essi sarebbe deleterio, tanto quanto averli commessi. Se in passato Finmeccanica era presente nel mercato civile in modo importante, perché non può esserlo ancora? Perche siamo convinti che tutto quello che rappresenta un cambiamento sia pericoloso? Dopotutto, nel 2010, ci troviamo in un mondo più armato e più instabile rispetto al periodo della guerra fredda. Eppure per rendere il mondo un posto migliore basterebbe davvero poco.
NOTE
(16) Data la durata quasi ventennale, il progetto, nel 1997, viene suddiviso in tranche: la prima con scadenza nel 2007 prevede la costruzione di 148 velivoli di cui 29 per l’Italia; la seconda con scadenza nel 2012 prevede la costruzione di 236 velivoli di cui 46 per l’Italia e la terza con scadenza 2017 prevede la costruzione di 236 velivoli di cui 46 per l’Italia.
(17) Responsabile del progetto, dello sviluppo, dell’assemblaggio finale del velivolo, della gestione del programma e del coordinamento delle attività dei subcontraenti. La partecipazione azionaria è così ripartita BAE System 37,5%, EADS Germania 30%, Alenia Aeronautica 19,5% ed EADS Spagna 13%.
(18) Responsabile della parte motoristica, non vi sono partecipazioni azionarie da parte di aziende Finmeccanica.
(19) Cfr. PAOLICELLI e VIGNARCA 2009, pp. 50 e ss.
(20) Cfr. MELMAN S., Guerra Spa, Città Aperta Edizioni 2006, pag.
(21) Si pensi che l’Italia per il 2008 ha sostenuto una Spesa Militare di 40 miliardi di dollari, con una media di 561 dollari pro capite. Dato ottenuto dal SIPRI Yearbook 2009 on Armament, Disarmament and International Security, 2009.
(22) Cfr. MELMAN S., Guerra Spa, Città Aperta Edizioni, p. 20.
(23) Ricordiamo che il picco di spese militari della guerra fredda si raggiunge nel 1989 con 1.050 miliardi di dollari; ad nel 2008 esse ammontano a 1.226 miliardi di dollari.
(24) Questa azienda nel 1988 era una delle principali produttrici di mine antiuomo; nel 1998, dopo dieci anni, si è totalmente riconvertita alla produzione civile.
(25) Per maggiori informazioni sul programma Konver cfr. Comito V., Le armi come impresa: il business militare e il caso Finmeccanica, edizioni dell’Asino 2009 pp. 7374.
Questa è la seconda parte della storia di Finmeccanica ricostruita in un articolo di Francesco Mancuso pubblicato su Sapere di Ottobre 2010 con il titolo “Dire addio alle armi”.
Qui la prima parte: Come Finmeccanica è diventata una multinazionale delle armi
Credit immagine: Foto Finmeccanica