Frequenze rivelatrici

Dopo una vita lunga e movimentata, anche le stelle muoiono. Lungi dall’essere fissi ed eterni, gli astri passano attraverso un complesso ciclo di evoluzione. La fase finale, però, resta ancora avvolta nel mistero. Infatti, in molti casi il destino è quello di diventare “stelle di neutroni”. Ovvero corpi molto piccoli, di densità altissima e costituiti da uno stato “esotico” della materia, che non si trova in nessun altro sistema naturale. Finora non si era riusciti ad andare oltre lo strato più esterno di questi oggetti, cioè l’intenso campo magnetico che li avvolge. Ma ora alcuni astrofisici italiani – Giovanni Bignami (ora in forze al Cnr francese), Patrizia Caraveo dell’Università di Pavia, Andrea De Luca e Sandro Mereghetti dell’Istituto di astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica “G. Occhialini – hanno trovato alcuni indizi sulla composizione della loro superficie. In uno studio pubblicato su Nature gli scienziati fanno confluire le osservazioni raccolte da XMM-Newton, un osservatorio dell’Agenzia spaziale europea. La navicella che, nell’agosto 2002, ha dedicato due delle sue orbite (circa tre giorni) all’osservazione della stella di neutroni chiamata 1E1207.4-5209, e che ha fatto scoperte sorprendenti. Le stelle di neutroni sono il risultato del collasso di astri che pesano almeno otto volte più del Sole (supernovae). Quando una stella consuma tutto l’idrogeno che la fa brillare – tramite una reazione termonucleare -, si contrae fino a un diametro di una decina di chilometri. La densità della sua materia, a questo punto, è talmente alta da superare quella interna ai nuclei degli atomi. Oggetti come questo sviluppano un campo magnetico dell’ordine delle migliaia di miliardi di gauss (a fronte dei 0.5 del pianeta Terra), e a volte ruotano rapidamente, assumendo l’aspetto di “pulsar”. Per ricavare informazioni al riguardo dei corpi celesti, in genere, si captano le radiazioni che emettono. Finora le uniche informazioni relative alle stelle di neutroni sono pervenute attraverso le onde radio, emesse dall’inviluppo di campo magnetico che le circonda. Per capire qualcosa della superficie della stella, però, è necessario studiare l’emissione di raggi X. A questo scopo la Nasa ha lanciato l’osservatorio spaziale Chandra e l’Esa l’XMM-Newton. Ci si aspettava di osservare gli “spettri di assorbimento” dei raggi X. In altre parole di trovare che le emissioni, ad alcune frequenze, erano assorbite dalla superficie o dall’atmosfera del pianeta. Questa è un’informazione importante, perché permette di fare ipotesi sui materiali che costituiscono l’oggetto e sui fenomeni che vi si verificano, entrambi responsabili dell’assorbimento. Tuttavia, “nulla di tutto ciò era stato osservato nella gran parte delle stelle prese in considerazione”, commenta Frits Paerels del dipartimento di Astronomia della Columbia University. Tranne in alcune, fra le quali appunto 1E1207.4-5209. Finora per la stella oggetto delle attenzioni degli astrofisica italiani erano state misurate solo due frequenze di assorbimento. Troppo poco per trarre le conclusioni. Invece, i dati raccolti dalla sonda europea e analizzati da Bignami e i suoi collaboratori rivelano tre, forse quattro frequenze. Inoltre, la seconda sembra essere pari al doppio della prima, la terza al triplo e la quarta (appena visibile nello spettro) al quadruplo. Questi risultati suggeriscono un’interpretazione univoca: gli assorbimenti sono legati alle “risonanze ciclotroniche” di protoni o elettroni. Ovvero proprio le frequenze a cui oscillano queste particelle quando sono immerse in un campo magnetico. La presenza di una struttura ben definita nello spettro e l’individuazione della sua origine è un indizio molto importante in una campo nel quale i risultati sperimentali sono molto rari. Questo risultato, infatti, potrebbe essere inserito in un modello dell’atmosfera delle stelle, dal quale ricavare la sua struttura e la distribuzione del campo magnetico.

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