Di fusione nucleare si parla, e vi parliamo, da tempo, e parecchio. La ragione è semplice da spiegare: mettere a punto un sistema per avere a Terra un processo di fusione nucleare (che è sostanzialmente il processo tramite il quale le stelle producono energia, fondendo tra loro i nuclei di idrogeno per formare atomi di elio, e poi atomi sempre più pesanti, man mano che si “esaurisce” la riserva di idrogeno durante il ciclo di vita della stella stessa) in modo energeticamente conveniente – ossia ottenendo più energia di quella necessaria a innescare il processo di fusione – alleggerirebbe significativamente tutti i nostri problemi di approvvigionamento di energia e di gestione delle scorie di produzione. La fusione nucleare, infatti, produce più energia della fissione (il processo al momento usato nelle centrali nucleari di tutto il mondo) e soprattutto non coinvolge elementi radioattivi, il che la rende, almeno in teoria, molto più efficiente e pulita.
Risultati incoraggianti
Come vi abbiamo raccontato, la comunità scientifica non sta certamente lesinando gli sforzi per raggiungere l’obiettivo. E stanno arrivando parecchi risultati incoraggianti, anche se la strada è ancora lunga. Ripercorriamo le tappe più recenti della storia: il primo passo davvero significativo è stato mosso nel 2014, quando i ricercatori del Livermore National Laboratory, un centro di ricerca federale nei dintorni di San Francisco, hanno pubblicato un articolo su Nature raccontando di essere riusciti, nel loro impianto, a liberare un’energia di fusione maggiore di quella assorbita dal combustibile per innescare la fusione stessa, misurando così, per la prima volta al mondo, un guadagno di combustibile maggiore di uno. Il tutto però a “motore già acceso”: nel computo energetico mancava infatti la cosiddetta ignizione, ossia il processo in cui l’energia di fusione è maggiore di quella usata per confinare i nuclei della miscela di isotopi dell’idrogeno.
Saltiamo quindi al 2022, quando sempre gli stessi fisici hanno annunciato una nuova svolta: “Siamo riusciti a ottenere l’ignizione di fusione”. In particolare, hanno colpito con 192 laser ad altissima energia una sfera di deuterio e trizio allo stato solido grande quanto un grano di pepe; la sfera ha quindi iniziato a comprimersi e a scaldarsi fino a circa 3 milioni di gradi, punto in cui si è innescata la fusione e in cui si sono liberati neutroni portatori di energia. A fronte dei circa 2 megajoule di energia laser, i neutroni prodotti hanno generato circa 3 megajoule di energia, con un guadagno energetico di 1,5.
Svolta nella fusione nucleare: prodotta più energia di quella immessa
Alla corsa non partecipano solo gli Stati Uniti, naturalmente: l’Europa sta facendo il suo con il consorzio di ricerca Eurofusion, cui aderisce anche l’Italia tramite l’Enea e che ha ottenuto risultati altrettanto incoraggianti nel Joint European Torus di Oxford, che a febbraio 2022 ha prodotto 59 megajoule di energia tenendo “accesa” la fusione per circa cinque secondi. Il consorzio, in realtà, sta puntando ancora più in alto: l’obiettivo per il futuro è la costruzione di Iter, un impianto ancora più potente ed efficiente il cui obiettivo finale è mettere effettivamente in rete l’energia prodotta. E ci sono poi gli sforzi dei giganti asiatici, primi fra tutti Cina e India, anche loro protagonisti del settore con traguardi molto significativi.
Il problema dei neutroni
La strada, comunque, è ancora lunga: in particolare, le sfide ancora aperte riguardano soprattutto i materiali da utilizzare all’interno del reattore e il cosiddetto “ciclo chiuso” per l’autosufficienza del trizio. In entrambi i casi, come ci aveva spiegato Paola Batistoni, responsabile della sezione sviluppo di Enea, c’è da tener conto del fatto che sebbene i prodotti della fusione nucleare non siano radioattivi, cioè la reazione non produce scorie, “tuttavia le strutture del reattore diventano radioattive a causa del bombardamento neutronico”. In sostanza, fuoriuscendo dal campo magnetico e dal plasma (due degli elementi usati per innescare il processo di fusione), i neutroni impattano ad altissima energia sul mantello, la componente interna del reattore che si riscalda e permette di vaporizzare l’acqua avviando i tradizionali processi di generazione dell’energia elettrica. “Stiamo sviluppando acciai – continua Batistoni – che, oltre a resistere dal punto di vista delle proprietà termomeccaniche, siano avanzati in due sensi: resistenti al bombardamento neutronico e a bassa radioattività indotta, dovranno cioè avere una radioattività non a lungo termine e decadere nel giro di un paio di secoli. Tali acciai non avranno bisogno di un deposito geologico permanente e potranno essere gestiti con sistemi più semplici rispetto ai materiali risultanti dalla fissione”.
Cinque prospettive per il futuro
Sempre a proposito di neutroni, c’è dell’altro, come racconta Ieee Spectrum, la rivista ufficiale della Ieee (Institute of Electrical and Electronics Engineers), la più grande organizzazione professionale che si occupa di ingegneria e di scienze applicate, in un approfondimento dedicato alla cosiddetta fusione aneutronica. “Sono allo sviluppo – dicono gli esperti – approcci di nuova generazione che mirano a risolvere una volta per tutte il problema dei neutroni. L’idea è quella di cambiare i combustibili ‘tradizionali’ [ovvero la miscela di deuterio e trizio, ndr] con altri elementi che, una volta fusi, rilascino energia trasportata da particelle cariche, anziché da neutroni. I sostenitori di questo metodo, la fusione aneutronica, sono convinti che questi dispositivi siano più facili da costruire e più adatti ai sistemi di alimentazione, perché sarà più facile convertire l’energia delle particelle cariche in elettricità. E i rifiuti radioattivi prodotti saranno ancora minori”. La proposta più solida, al momento, è quella di Tae Technologies, il primo progetto privato completamente dedicato allo sviluppo della fusione aneutronica. È stato lanciato nel 1998, e si basa sull’utilizzo, come combustibile per la reazione, di idrogeno e boro, una miscela nota come p-B11, che durante la fusione rilascia nuclei carichi di elio-4. Ci sono ancora dei problemi da risolvere legati alla tecnica di confinamento del plasma (che è diversa rispetto a quella usata nei reattori tradizionali), ma dall’azienda dicono di essere sulla buona strada per risolverli, anche grazie all’adozione di strumenti di machine learning e di nuove tecnologie che consentono di “modellare” il plasma in tempo reale, aumentandone la stabilità.
C’è poi l’approccio di Helion Energy, che, come suggerisce il nome, si serve dell’elio – o più precisamente di una miscela di elio-3 e deuterio – per arrivare a una reazione di fusione in cui i neutroni prodotti siano solo una piccola frazione del prodotto finale. In questo caso il problema è che l’elio-3 è un materiale molto raro (costituisce appena lo 0,0001% di tutto l’elio disponibile sulla Terra) e costoso da produrre. È vero che sulla Luna è molto più abbondante (si stima ce ne sia oltre un milione di tonnellate), ma, ancora, minare l’elio-5 sulla Luna non è un’operazione esattamente semplice o economica. Helion Energy sta lavorando a un sistema per produrre in-house l’elio-3 necessario alle sue reazioni, ma al momento non è ancora chiaro se e quando ci riuscirà, e se il costo della produzione sarà sostenibile rispetto alla produzione energetica.
Ancora: gli esperti di Ieee classificano come promettente l’approccio di HB11, un reattore australiano che usa laser ad alta potenza (i cosiddetti chirped-pulse-amplification laser, protagonisti del premio Nobel per la Fisica del 2018) per fondere idrogeno e boro; la stessa miscela è usata dai tedeschi di Marvel Fusion, che usano nanostrutture per confinare il B11 con laser ad alta energia. Con il deuterio e l’elio-3, invece, lavorano gli scienziati del Princeton Fusion Systems, servendosi di magneti superconduttori: il loro obiettivo è di sviluppare reattori compatti per alimentare, per esempio, le navicelle spaziali.
Via: Wired.it