Spesso è considerata una pratica invasiva e poco sostenibile, considerando che può contribuire ai numerosi fattori di stress che gli ecosistemi acquatici devono affrontare. In realtà l’acquacoltura, cioè l’allevamento di alcune specie acquatiche, può non solo sostenere la conservazione di ecosistemi naturali, ma anche il loro ripristino. Lo sostiene uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Melbourne guidati da Kathy Overton, del Sustainable Aquaculture Laboratory – Temperate and Tropical (SALTT), School of BioSciences, in Australia, che descrivono l’impatto positivo dell’allevamento di organismi come cozze, vongole o alghe sull’ambiente circostante, per poterne ottimizzarne le interazioni e capire come produrre il miglior esito possibile dallo sviluppo di questi organismi in grande scala. In particolare, i ricercatori hanno identificato almeno dodici potenziali benefici ecologici dell’acquacoltura: tra questi, il recupero di alcune specie, il ripristino e la protezione dell’habitat, il biorisanamento, la mitigazione del cambiamento climatico, la difesa delle coste e la rimozione di specie in eccesso.
La Giornata Mondiale dell’Acqua
L’acquacoltura è una pratica ormai fondamentale nella produzione di cibo, in particolar modo di proteine animali ad alto valore nutrizionale, sempre più richieste dai paesi a basso reddito, dove non a caso si concentra il maggior aumento di produzione a livello globale. Dal 2013, infatti, il mondo consuma più prodotti acquatici allevati che pescati. In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, il 22 marzo, serve dunque una riflessione sullo stato effettivo delle popolazioni di animali acquatici selvatici, il cui numero continua a calare, e contemporaneamente sul modo migliore di produrre grandi quantità di cibo in futuro.
Nell’opinione generale l’acquacoltura viene associata a realtà produttive intensive e con effetti dannosi per le aree in cui vengono sviluppate. Tuttavia, la maggior parte dei problemi associati a questa pratica sono relativi a specifiche colture, principalmente le produzioni di pesci predatori come i salmoni, o anche quelle di gamberi, che possono contaminare l’acqua con rifiuti e farmaci, causare malattie e problematiche genetiche nelle popolazioni selvatiche circostanti, o produrre un effetto paradossale di aumento della pesca, necessaria per nutrire questi animali allevati con farine di pesce pescato. E tuttavia, spiega Giovanna Marino, responsabile ISPRA per l’acquacoltura in Italia, sono stati fatti grandi passi avanti nel controllo qualità, specialmente nel panorama europeo: “L’acquacoltura ha un impatto localizzato sull’ambiente e i prodotti sono in larghissima parte sani e sicuri, spesso più del pescato, di cui non si può sapere la storia e i danni prodotti nell’estrarlo dal mare”.
Acquacoltura, cosa produciamo in Italia
In realtà, anche le forme più criticate, se applicate con accorgimenti nel mangime e nella filtrazione dell’acqua, possono avere impatti meno dannosi degli allevamenti di animali terrestri. La migliore performance la mostrano gli allevamenti di bivalvi come cozze e vongole, così come quelli di alghe. La produzione di molluschi, conferma l’esperta, viene condotta con un sistema indubbiamente sostenibile, visto che ha la più bassa impronta ambientale. Per produrre un chilo di proteine di altre specie, che siano salmoni, bovini, polli eccetera, si genera un’impronta ambientale molto più alta. “In Italia – continua Marino – l’acquacoltura si concentra principalmente su 5 specie: spigole, orate, trote, cozze e vongole. In particolare il nostro paese produce oltre 50.000 tonnellate di cozze, e oltre il 90% delle vongole prodotte in Europa”.
Secondo i ricercatori di Melbourne queste forme di acquacoltura possono quindi generare benefici anche a livello ambientale. Per esempio, i bivalvi possono contribuire all’assorbimento di nutrienti provenienti dagli scarti agricoli in acqua, e nel caso delle alghe anche l’assorbimento di metalli pesanti e CO2. Inoltre, le strutture usate negli allevamenti possono aiutare ad attenuare l’impatto delle onde sulle coste, stabilizzando queste aree rispetto alle alterazioni climatiche. Alcune tipologie di attrezzature, per esempio le gabbie o le corde associate all’allevamento di alghe e bivalvi, possono poi fornire un substrato di insediamento per le comunità di organismi nativi e fornire rifugio per i pesci e gli invertebrati.
Ripristinare gli habitat
Grazie all’impiego di organismi allevati, aggiungono i ricercatori australiani, è addirittura possibile ripristinare la struttura e la funzione di un habitat degradato, danneggiato o distrutto. La specie è tipicamente un ingegnere o pioniere di ecosistemi (formatore di habitat), e quindi di solito è una pianta o un invertebrato. Questo risultato può essere ottenuto mediante l’aggiunta attiva di individui da allevamenti, vivai o centri di ricerca nell’area target. Ad esempio, la coltivazione di coralli è comunemente usata per ripristinare le barriere.
“L’acquacoltura è un settore innovativo e importante che sta ricevendo sempre più attenzione da parte dell’ONU e della FAO”, continua Marino. In Europa, tuttavia, la crescita dell’acquacoltura procede molto lentamente, nonostante l’aumento della domanda di prodotti sani che soddisfino le esigenze dei consumatori. In Italia la situazione è ancora più critica, con una riduzione del 15% nella produzione dal 2014. In realtà, conclude Marino, il nostro paese ha un enorme potenziale per lo sviluppo dell’acquacoltura. A frenarlo è molto spesso la burocrazia: il processo complicato per ottenere permessi e autorizzazioni, così come i tempi di risposta incerti delle autorità, disincentivano gli investimenti in nuovi siti di produzione.
Attenzione al greenwashing
Secondo il team australiano, il principale modo per ottenere acquacoltura realmente sostenibile è di concordare l’effettiva definizione dei parametri di valutazione, non lasciando spazio al greenwashing ma incentivando le pratiche meritevoli, studiando appositamente lo sviluppo di nuove realtà produttive in luoghi appropriati, e modalità adeguate al contesto specifico. L’uso efficiente delle risorse naturali, la tracciabilità, la trasparenza e la conservazione di habitat intatti devono essere soddisfatti affinché un’attività possa essere considerata acquacoltura sostenibile.
Riferimenti: Conservation Biology
Credit foto: Gil Ndjouwou su Unsplash