La guerra dei vaccini alla fine è arrivata, e la sensazione è che stiamo già perdendo. Pfizer ha tagliato le forniture destinate ai paesi Ue; ha chiesto, e ottenuto, di venderci anche la famosa sesta dose che pensavamo di aver trovato in regalo nelle fiale; ci ha ricordato negli scorsi giorni che le forniture settimanali sono una gentile concessione, perché le penali per la mancata consegna delle dosi promesse si calcolano, da contratto, su base trimestrale. AstraZeneca, dal canto suo, ha già annunciato un consistente taglio nel primo trimestre 2021, iniziando un braccio di ferro con la Commissione Europea sui termini di un contratto (desecretato negli scorsi giorni proprio all’apice della querelle) in cui l’azienda ritiene di essersi impegnata solamente a fare “del proprio meglio” per consegnare le dosi acquistate. Per Moderna si vedrà, d’altronde è appena arrivata sulla scena, ma con un totale di 160 milioni di dosi destinate all’Ue (e poco meno di un milione e mezzo per l’Italia) non rientra tra i pilastri del nostro piano vaccinale. Il risultato, intanto, è che la campagna di vaccinazioni senza precedenti che ci era stata promessa è ancora ai blocchi di partenza. E mentre i nostri politici accusano e minacciano ritorsioni, Big Pharma scrolla le spalle e fa affari dove più le conviene. Perché anche nel pieno di una pandemia senza precedenti sono le aziende a dettare le regole, i profitti a stabilire le priorità. E dire che esisterebbe una soluzione semplice ed elegante: le licenze obbligatorie, un’opzione prevista dai trattati internazionali che regolano la proprietà intellettuale, che permette di forzare la mano al detentore di un brevetto proprio nel caso di un’emergenza sanitaria. Se non è questo il momento di usarle – viene da chiedersi – quando mai lo sarà?
Capacità produttive insufficienti
A sentire i diretti interessati, d’altronde, il problema è tutto logistico: non è facile produrre in tempi brevi vaccini per tutti. Un intoppo che si potrebbe risolvere velocemente, coinvolgendo altre realtà industriali (pubbliche o private) e attivando nuovi siti di produzione. Ma non sta a noi decidere: i brevetti garantiscono la proprietà esclusiva dei vaccini alle aziende che li hanno sviluppati, e sono loro a valutare quanti, e dove, produrne. E se qualcuno è pronto a pagare di più, anche la ricca Europa rischia di trovarsi scavalcata nella corsa all’approvvigionamento. Le aziende giurano che non è così, ma la Commissione Europea non sembra convinta, visto che ragiona da giorni sulla possibilità di introdurre un qualche sistema di monitoraggio, se non addirittura un blocco alle esportazioni di vaccini, per evitare che aziende come Pfizer o AstraZeneca vendano all’estero le dosi promesse all’unione e prodotte sul territorio Ue.
“Le minacce del governo italiano e di alcune istituzioni europee di ricorrere alle vie legali fanno sorridere”, commenta Vittorio Agnoletto, medico, attivista e professore di Globalizzazione e politiche della salute alla Statale di Milano. “Nel 2016 e nel 2017 Big Pharma è stata multata per 2,9 miliardi di dollari, ricavando negli stessi anni, rispettivamente, 524 e 551 miliardi di dollari. Con realtà simili le sanzioni non sortiscono alcun effetto. Di fronte alla prospettiva di guadagni stratosferici il rischio di qualche multa è già stato messo a bilancio. L’unico modo per garantire la salute di 446 milioni di cittadini europei e di 7,8 miliardi di esseri umani che abitano il pianeta è sospendere i brevetti”.
Licenze obbligatorie
Una posizione radicale? Non proprio, visto che è prevista dagli accordi internazionali che regolano la tutela della proprietà intellettuale: l’Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, o Trips, un documento promosso dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e che dal 2001 contiene delle clausole di salvaguardia pensate proprio per situazioni di grave emergenza sanitaria. Nell’articolo 31 dell’accordo, infatti, è prevista esplicitamente la possibilità di utilizzare licenze obbligatorie per produrre farmaci coperti da brevetto ritenuti indispensabili per la salute della popolazione, e non disponibili in quantità sufficienti (o a prezzi abbordabili) affidandosi all’azienda che detiene il brevetto.
Non si tratta esattamente di un esproprio, quanto piuttosto della possibilità di forzare la mano a un’azienda che non venga incontro alle esigenze di salute di una nazione, obbligandola a cedere la licenza di produzione del farmaco in cambio di un’equa compensazione economica. Un meccanismo introdotto per risolvere situazioni di scontro fin troppo comuni anche nel recente passato. Era il 1997 quando Nelson Mandela, nel pieno di un’epidemia di Aids che in Sudafrica contava oltre tre milioni di sieropositivi e circa 100mila morti l’anno, promulgò una legge che consentiva di produrre e importare farmaci anti hiv in deroga alle norme sui brevetti. Una legge necessaria perché i nuovi antiretrovirali, primi farmaci in grado di contrastare efficacemente l’hiv, erano troppo costosi per essere utilizzati nei paesi a medio e basso reddito. Che trovò però l’opposizione compatta delle multinazionali del farmaco: 39 aziende farmaceutiche denunciarono il Sudafrica per la violazione degli accordi internazionali sul commercio, bloccando di fatto l’applicazione della legge per i successivi 4 anni, durante i quali altri 300mila sudafricani morirono a causa dell’Aids, nonostante esistessero ormai farmaci capaci di salvarli.
All’epoca, la reazione dell’opinione pubblica mondiale ebbe faticosamente la meglio sugli interessi di Big Pharma, portando le 39 aziende a ritirare la denuncia e spingendo il Wto a introdurre nel 2001 le clausole di salvaguardia nell’articolo 31 del Trips. Ma negli anni la vittoria ha finito per rivelarsi di pura facciata, visto che a due decenni di distanza le licenze obbligatorie non hanno trovato praticamente mai applicazione, e che persino oggi, nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria di portata globale, nessuno dei grandi attori della scena politica mondiale sembra ricordarsi della loro esistenza.
La moratoria
Un’altra opzione percorribile è quella invocata da India e Sudafrica, che lo scorso ottobre hanno chiesto al Wto una moratoria sui brevetti legati a farmaci e vaccini contro Covid 19, in virtù della grave emergenza pandemica che l’intero pianeta si trova ad affrontare. Anche in questo caso, non si tratterebbe di fantascienza: l’opzione è prevista dall’accordo di Marrakesh che ha sancito la nascita del Wto, in presenza di circostanze eccezionali e per un periodo di tempo circoscritto. Ma nonostante oggi l’Ue si trovi di fronte agli stessi problemi di approvvigionamento che affrontano i paesi a basso e medio reddito, per ora le nostre istituzioni sembrano decise a tutelare gli interessi dell’industria farmaceutica, a scapito della salute dei cittadini e della stessa economia dell’unione.
“La proposta di India e Sudafrica è stata formalizzata ad ottobre, con la richiesta di una fast track per discutere la moratoria in una sessione speciale, prima della fine del 2020 – sottolinea Agnoletto – Usa e Unione Europea però si sono opposti, e ora la discussione è stata rimandata alla prossima riunione formale del consiglio Trips, prevista per marzo. Una decisione grave perché, da tecnico, posso assicurare che senza certezze sulla disponibilità settimanale dei vaccini è impossibile organizzare efficacemente una campagna vaccinale di portata storica come quella che ci apprestiamo a mettere in piedi. E senza un’azione globale si tratterebbe comunque di sforzi vani: se anche eliminassimo la malattia nelle nostre nazioni, disinteressandoci dei paesi del Sud del mondo, il virus sarebbe sempre in agguato, pronto a essere reintrodotto dai paesi in cui non è stato possibile realizzare una campagna di vaccinazioni su ampia scala”.
La petizione europea
Proprio per cercare di spingere all’azione le istituzioni Ue è stata lanciata la petizione “Nessun profitto sulla pandemia”, che chiede all’Europa di appoggiare la moratoria sui brevetti, di introdurre norme che garantiscano il controllo pubblico di vaccini e terapie sviluppate con soldi pubblici (come nel caso dei vaccini Covid, finanziati generosamente con fondi pubblici sia in Ue che negli Usa), e invita gli stati dell’Unione Europea ad utilizzare le licenze obbligatorie previste dall’articolo 31 dei Trips. La strada scelta è quella dell’Ice (o diritto di iniziativa dei cittadini europei), uno strumento istituzionale che permette ai cittadini europei di invitare la Commissione ad esprimersi e legiferare su un certo tema. “L’obbiettivo è quello di raccogliere un milione di firme nei paesi dell’Unione e circa 180mila in Italia”, spiega Agnoletto, che è il responsabile italiano dell’iniziativa. “Quando l’avremo fatto la commissione sarà obbligata a convocarci e presentare una proposta legislativa al Parlamento e al Consiglio dell’Unione Europea, o quanto meno a motivare un eventuale diniego, stimolando comunque il dibattito su questo tema”.
Si tratta, in fin dei conti, semplicemente di rimettere ordine alle nostre priorità: quante vite umane possono essere sacrificate in nome del profitto? Se lo chiedessimo a un grande scienziato come Jonas Salk la risposta sarebbe scontata: nessuna. Non a caso, quando gli chiesero come mai avesse rifiutato di brevettare il primo vaccino anti polio mai realizzato (perdendo milioni di dollari), Salk rispose senza esitazione con una frase ormai celebre: “Si può forse brevettare il sole?”.