Oggi è la Giornata mondiale contro l’Aids. Perché la battaglia contro Hiv non è affatto vinta, anche se sembra che molti, soprattutto le nuove generazioni, lo ignorino. Lo dimostra il fatto che nel solo 2018 ci sono state 1,7 milioni di nuove infezioni e i pazienti ancora muoiono, nonostante ci siano gli strumenti per la prevenzione e le terapie antiretrovirali attuali siano efficaci. E, va detto, c’è anche una responsabilità politica, che – denuncia l’Oms – porterà a non raggiungere gli obiettivi globali per l’Hiv fissati per il 2020.
Ben consapevole che la vittoria è ancora lontana, la ricerca su Hiv è attiva e proprio in questi giorni la rivista Science Translational Medicine ha pubblicato uno studio che getta un po’ di luce su una delle (ancora troppe) domande senza risposta circa i meccanismi che guidano il persistere dell’infezione: perché i pazienti non sviluppano anticorpi efficienti contro il virus?
Linfociti B, tra anticorpi e memoria immunologica
Facciamo una premessa. Quando veniamo in contatto con un potenziale patogeno e lo combattiamo, alcune cellule del sistema immunitario chiamate linfociti B iniziano a proliferare e si differenziano in due grandi famiglie: una produce anticorpi, l’altra memorizza alcune caratteristiche del nemico cosicché, se per caso dovessimo imbatterci di nuovo in lui, possiamo cominciare a produrre subito degli anticorpi molto specifici.
Per le infezioni da Hiv, però, questo processo non avviene così bene. Chi viene in contatto col virus produce anticorpi (infatti la loro ricerca è alla base di molti test per la sieropositività) ma questi non sono molto efficienti e non riescono a guidare la risposta immunitaria e a debellare completamente l’infezione. Perché?
L’ “esclusione” non fa la forza
La nuova indagine, condotta da James Austin del National Institute of Health di Bethesda (Usa) e dai suoi colleghi, ha preso in esame i linfociti B (in particolare i linfociti B T-bethi, che aumentano in caso di infezioni croniche) di 13 pazienti e 18 persone non infette per verificare se ci fossero delle differenze.
Attraverso diversi test e tecniche di imaging, i ricercatori hanno scoperto che nei pazienti con Hiv questi particolari linfociti B non entrano nei cosiddetti centri germinali, cioè aree all’interno dei linfonodi dove le cellule B mature proliferano e si specializzano per creare anticorpi ad alta affinità, ma si accumulano all’esterno.
Secondo gli autori della ricerca, i linfociti B T-bethi che vengono esclusi dei centri germinali sono meno efficaci rispetto alle cellule di controllo, e anche in test di laboratorio, messi a contatto con Hiv, non riescono a neutralizzarlo.
I motivi per cui questo avvenga non sono chiari, ma per gli esperti riuscire a comprenderli vorrebbe dire entrare in possesso di informazioni che potrebbero permettere di sviluppare azioni terapeutiche volte a migliorare la risposta immunitaria dei pazienti.
Riferimenti: Science Translational Medicine