La resistenza ai farmaci contro l’hiv è un problema. Lo è già da qualche tempo, tanto che nel 2017 l’Oms ha lanciato un piano per monitorare e trovare soluzioni. Progressi relativamente al monitoraggio della resistenza sono stati fatti in diversi paesi, con l’avvio di programmi ad hoc per stimare l’emergenza e la trasmissione delle forme del virus resistenti. Ma gli sforzi per monitorare il fenomeno hanno permesso anche di fotografare la situazione, che non è delle più rose, rende noto oggi un report sulla resistenza i farmaci contro l’hiv dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Hiv, cosa si intende per resistenza agli antiretrovirali
Quando si parla di resistenza ai farmaci contro l’hiv (Hiv Drug Resistance, Hivdr) ci si riferisce ai farmaci antiretrovirali, il caposaldo della lotta al virus. Si tratta di medicinali che, agendo su varie fasi della duplicazione del virus, mirano a bloccarne la replicazione. Nella terapia antiretriovirale classica si somministrano più farmaci, che agiscono con meccanismi diversi.
Il virus dell’hiv mutando può diventare insensibile a uno o più di questi farmaci. Può farlo sotto terapia antiretrovirali, ma una persona può essere resistente anche perché ha acquisito una forma virale già resistente ai farmaci o ancora può svilupparsi quando si ricomincia la terapia dopo essere già stati esposti al trattamento. L’aderenza alla terapia, scrivono dal dipartimento della salute statunitense, riduce il rischio di resistenza ai farmaci. E un virus resistente è un virus capace moltiplicarsi, di prosperare indisturbato, sovvertendo il funzionamento del sistema immunitario.
Le situazioni e le zone più problematiche
Secondo quanto emerge dal report dell’Oms in 12 paesi (Swaziland, Namibia, Uganda, Sudafrica, Zimbabwe, Argentina, Cuba, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Nepal, Papua Nuova Guinea) la resistenza contro due farmaci (efavirenz e/o nevirapina, della classe degli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa) negli adulti in prima linea di trattamento supera il 10%. E la situazione è particolarmente critica nelle donne, dove mediamente la resistenza è due volte tanto quella nei maschi, arrivando in alcuni paesi (come Cuba, Honduras e Nicaragua) a superare il 30%. E ancora nei bambini: tra il 2012 e il 2018 in 9 paesi dell’area subashariana oltre la metà dei bambini con meno di 18 mesi diagnosticati con hiv aveva un virus resistente a efavirenz e/o nevirapina (la resistenza era oltre il 10% per altre classi di antiretrovirali, quali gli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa).
Preoccupante anche la situazione anche in chi è stato già esposto agli antiretrovirali, per esempio tramite profilassi pre-esposizione (Prep), post-esposizione (Pep) o per scongiurare la trasmissione madre-figlio o per trattamento precedente da hiv poi interrotto (il trattamento è a vita per tutti dal momento della diagnosi, donne incinte e in allattamento incluse). In questi casi la resistenza è tre volte tanto quella che si osserva in chi non ha mai assunto antiretrovirali. “Una risposta globale congiunta all’aumento delle resistenze è di fondamentale importanza per l’Oms e i suoi partner”, si legge nel report.
La gestione delle resistenze
L’Oms aveva già emanato delle raccomandazioni per i paesi in cui le resistenze superavano il 10%, come l’utilizzo di regimi di prima linea alternativi a quelli con efavirenz e nevirapina e l’utilizzo di dolutegravir in prima linea. Un farmaco che, secondo quanto dichiarato da Roger Paredes del Germans Trias i Pujol University Hospital di Barcellona a Nature News, ha meno possibilità di indurre resistenze.
Ootenziare l’efficacia dei farmaci, riducendo resistenza e al contempo la tossicità, rimane oggi uno dei pilastri centrali nella lotta all’hiv per il prossimo futuro. Contro cui serviranno sforzi per assicurare aderenza alla terapia (anche nelle formulazioni, come quelle a pillola unica), disponibilità delle terapie anche per eventuali switch, monitoraggio e controlli clinici di parametri di base come carica virale.
Via: Wired.it
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