C’è l’italiano in vacanza ai Caraibi che si lancia alla ricerca, destinata al fallimento, di un buon piatto di spaghetti. Ma c’è anche il tedesco che per assaporare la cucina locale del Mali sfida le leggi della prevenzione – e il proprio sistema immunitario – ingoiando cibi crudi e frutta non sbucciata, noncurante dei rischi di epatite A e diarrea del viaggiatore. Due facce della stessa medaglia, o meglio due aspetti estremi dello stesso, stravagante, personaggio: “il turista”. Chi è costui? Cosa lo spinge ogni anno dall’altra parte del mondo, assieme a una massa crescente di “compagni di viaggio”, che non siano motivi di lavoro o i morsi della fame? Forse, la curiosità verso nuove culture? Il rischio dell’avventura esotica? O anche qualcosa di più recondito, nascosto nei meandri della preistoria umana?
E’ quanto hanno cominciato a chiedersi da qualche anno schiere di illustri antropologi, inaugurando un nuovo filone: quello dell’”antropologia del viaggio”. Un tema che sta appassionando persino l’americano Donald Johanson, scopritore di Lucy, il famoso scheletro di australopiteco trovato in Etiopia nel ‘74. Johanson sarà a Venezia dal 24 al 27 marzo prossimi proprio per parlare del “viaggiatore” insieme ad altri esperti provenienti da tutto il mondo, in occasione della conferenza “Mobility and Health: from Hominid Migration to Mass Tourism”.
“La storia della civiltà è legata al concetto di viaggio e allo spostamento degli individui (per motivi militari, commerciali, religiosi, eccetera) e dei popoli. Di certo, profonde e radicate motivazioni inconsce sono alla base del turismo di massa di questo fine secolo: le origini nomadiche dell’uomo, il bisogno di conoscenza, di socializzazione e di esplorazione”, spiega Walter Pasini, direttore del Centro di medicina del turismo dell’Organizzazione mondiale della sanità e chairman della conferenza.
Circa 500 milioni di persone si muovono ogni anno, in tutto il mondo, per turismo o lavoro. Circa 30 milioni si recano in paesi dove esiste il rischio di contrarre malattie infettive molto serie, come la malaria, l’epatite. Eppure questa massa di individui in movimento è generalmente sprovveduta e disinformata. Il turista, varcati i confini, o quantomeno cambiato l’abituale habitat, assume comportamenti più “a rischio”: scala vette senza averlo mai fatto prima, si butta nelle acque tropicali a pancia piena, insomma si lancia in imprese eroiche che normalmente non avrebbe mai tentato. “Perché l’uomo cerca la morte nel viaggio? Perché cerca fuori il rischio che eviterebbe a casa? Anche qui si nascondono motivi psicopatologici da indagare”, dice Pasini.
E che “viaggiare” sia un po’ “morire” lo si può desumere anche dalla sfida alla “malattia esotica”. Chi viaggia in paesi dove sono endemiche patologie infettive come la febbre gialla, la meningite meningococcica, l’epatite A, la febbre tifoide, può correre seri rischi di contrarle se non opportunatamente vaccinato prima della partenza. Eppure il turista proveniente dal ricco occidente si sente naturalmente immune, invincibile. “All’enorme esplosione dei viaggi internazionali non corrisponde un’adeguata preparazione dal parte del turista, specie italiano, sui rischi per la salute. Molti rifiutano la profilassi antimalarica, come mostrano i recenti casi di italiani colpiti da malaria di ritorno dal Kenya”, dice Pasini. “Il problema è che gli operatori turistici, le agenzie di viaggio, non fanno nulla e non hanno alcun interesse a informare il cliente. Sono pronti ad accogliere a braccia aperte il turista dell’ultima ora, quello che vuole partire subito e compra il pacchetto vacanziero più a portata di mano”. Purché sia lontano. Nulla può fermarlo. L’importante è fuggire. Ma da cosa? La risposta tocca ora agli antropologi.