Inutile affannarsi alla ricerca di significati simbolici: le pitture rupestri rappresentano la realtà, così come appariva 25.000 anni fa. I loro autori dipingevano infatti ciò che vedevano, la natura che li circondava e gli animali che vi abitavano. Nulla di inventato. Anche quei cavalli dal manto bianco puntinato di nero (come quello di Pippi Calzelunghe, per capirci) raffigurati nelle grotte di Pech Merle nella Dordogna, in Francia – ritenuti fino a oggi frutto della fantasia degli artisti preistorici perché troppo moderni per l’epoca – esistevano davvero nel Paleolitico.
Lo dimostrano per la prima volta alcuni ricercatori dell’Università di York, che, in collaborazione con i colleghi del German Archeological Institute di Berlino, hanno analizzato il dna di ossa e denti appartenenti a 31 cavalli che 35.000 anni fa circolavano nelle praterie d’Europa. Ebbene, in sei campioni tra quelli studiati gli scienziati hanno individuato un gene associato con il manto macchiato delle razze attuali, il fenotipo “leopard”. I cavalli “a pois”, da sempre considerati animali “giovani”, esistevano quindi già in epoca preistorica. E non erano nemmeno una rarità: quattro su dieci cavalli provenienti dall’Europa occidentale possedevano il genotipo responsabile dell’“effetto leopardato”.
La scoperta, pubblicata su Pnas, costringe a un ripensamento non solo i biologi evolutivi, ma anche gli archeologi. I primi infatti devono accettare che 25.000 anni fa gli equini dal mantello baio (criniera, estremità e coda nere con corpo marrone) e quelli totalmente neri, la cui esistenza in epoca preistorica era l’unica fino a oggi accertata, dividessero il territorio con i leopard, bianchi puntinati. I secondi invece sono obbligati a scartare, una dopo l’altra, tutte le ipotesi congegnate per spiegare il valore simbolico di opere ritenute finora astratte. I ritratti immortalati sulle rocce delle grotte francesi della Dordogna, dell’Ardèche e dell’Ariège, o di quelle spagnole della Cantabria erano, a quanto pare, del tutto veritieri. Anche la proporzione con cui compaiono nei dipinti i diversi tipi di cavallo sembra rispecchiare l’ambiente naturale dell’epoca: il cavallo dal manto baio, il cui genotipo è stato rilevato in 18 campioni su 31, era il più diffuso e, di conseguenza, anche quello più rappresentato.
Riferimenti: PNAS doi: 10.1073/pnas.1108982108
Credits immagine: Mike & Anna/Creative Commons/Flickr