Al quarto posto in Europa per presenza di industrie biotecnologiche dietro Germania, Regno Unito e Francia, l’Italia può contare su 163 società, di cui 73 costituite a partire dal 2000. Un dato sorprendente, considerando lo scarso apprezzamento del mondo biotech da parte degli italiani. Ma non è questo l’unico elemento contenuto in “Biotecnologie in Italia 2006. Analisi strategica e finanziaria”, il rapporto redatto da Blossom Associati e Assobiotec presentato lo scorso 30 marzo a Milano, a stupire. Balza agli occhi, infatti, anche lo spazio che stanno conquistando gli spin-off accademici in questo panorama: delle 69 aziende appartenenti alla categoria start-up e spin-off, 9 sono spin-off di origine universitaria (sono solo 6 invece quelle nate dalle costole di aziende private). Si tratta principalmente di piccole imprese con fatturati modesti – in sei casi inferiore a 100 mila euro – e un esiguo numero di dipendenti. “Nelle università italiane e negli enti di ricerca si fa ricerca biotech di ottimo livello”, commenta Roberto Gradnik, presidente di Assobiotec. “E sono convinto che il potenziale inespresso sia ancora molto: i cassetti dei ricercatori sono pieni di brevetti che non trovano sbocco commerciale”. Lo dimostrano le classifiche stilate dall’Unione Europea sugli indicatori di sviluppo: in quella delle pubblicazioni scientifiche di carattere biotecnologico l’Italia è quarta con 34021 studi pubblicati tra il 1994 e il 1999, quando invece si calcolano i brevetti domandati all’Ufficio Brevetti europeo il Belpaese scivola al settimo posto.Chi finanzia queste piccole imprese? L’università partecipa con percentuali variabili dal 5 al 20 per cento. Gli altri investitori sono aziende private nazionali, regioni e amministrazioni locali e in parte anche gli stessi ricercatori. Ma aldilà delle valutazioni quantitative, gli spin-off testimoniano che un legame fra università e mondo della produzione è possibile, “anche se un’attenta analisi finanziaria evidenzia la carenza di approcci propriamente manageriali nella gestione delle stesse”, si legge nel Rapporto.Le dimensioni degli spin-off accademici rispecchiano quelle dell’80 per cento della società censite da Blossom Associati: imprese piccole, con meno di 50 dipendenti e con un fatturato inferiore ai 10 milioni di euro. Cosa significa questo? “Che quello delle biotecnologie è un settore giovane e in espansione”, risponde Gradnik. “Che potenzialmente potrà ancora crescere. Certo ci sarà anche qualcuno che non ce la farà, ma un margine di mortalità va sempre considerato. Ma, soprattutto nei parchi tecnologici, la spinta a crescere è una realtà”.La partecipazione al capitale da parte di enti istituzionali – università, enti di ricerca, ma anche regioni o province – è, infatti, un fenomeno strettamente legato alla localizzazione dell’impresa all’interno di un parco scientifico-tecnologico, un area cioè dove sono raggruppate diverse realtà produttive legate fra loro: tutte le aziende che sono partecipate da enti pubblici sono all’interno dei parchi. In più anche la variabile geografica sembra giocare un ruolo determinante. In assoluta prima posizione troviamo Firenze: dalle idee dei ricercatori dell’Università cittadina sono nate quattro delle nove spin-off accademiche. Di che cosa si occupano in prevalenza queste società? “Di cura della salute, in linea con i dati che abbiamo per l’intero comparto italiano”. Il panorama delle aziende biotech italiane offerto dal Rapporto parla infatti del 69 per cento di aziende “red biotech”, che si occupano cioè di genomica, proteomica, biotrasformazione; il 15 per cento di “green biotech”, che comprende agricoltura, veterinaria e zootecnia; e il 10 per cento di “grey biotech”, in cui rientra tra le altre cose la produzione industriale di vitamine, aminoacidi, enzimi finalizzati allo smaltimento dei rifiuti, e della depurazione delle acque.