Nonostante il bando avvenuto circa trenta anni fa nella maggior parte dei paesi occidentali, il famigerato insetticida Ddt continua a fare vittime. In uno studio clinico multicentrico su pazienti affetti da Alzheimer effettuato negli Stati Uniti e pubblicato su Jama Neurology, i ricercatori riportano che i malati avevano livelli plasmatici di Dde, un derivato del Ddt, significativamente più alti degli individui sani. Inoltre, hanno calcolato che la presenza di concentrazioni elevate di questo composto tossico aumenta di ben quattro volte il rischio di sviluppare la malattia, un dato molto preoccupante per la salute dei pazienti in tutto il mondo.
Nei loro studi gli scienziati americani hanno studiato l’effetto dell’esposizione al Ddt in un gruppo di 86 pazienti affetti da Alzheimer e in 79 individui anziani sani, reclutati tra il 2002 e il 2008 presso l’Alzheimer’s Disease Research Centers dell’Università del Texas e l’Emory University School of Medicine di Atlanta. Per ogni paziente hanno misurato il livello plasmatico di Dde, la gravità della malattia tramite il Mmses (mini mental state examination score), un test di valutazione delle capacità cognitive, e la presenza della variante e4 del gene ApoE, precedentemente associato a elevato rischio di Alzheimer.
Il Dde era evidenziabile nell’80% dei pazienti malati e nel 70% dei controlli; tuttavia, nei primi la concentrazione nel sangue era circa 3,8 volte più alta. Elevati livelli di Dde nel plasma correlavano con quantità maggiori accumulate nel cervello, come mostrato da studi autoptici di malati deceduti. Nei pazienti con valori di Dde compresi nel terzile superiore – ossia quelli con il 30% dei valori più alti – i punteggi ottenuti nel test Mmses erano più bassi degli altri gruppi e c’era un aumento del rischio di sviluppare l’Alzheimer di circa 4 volte. Inoltre, la presenza dell’allele ApoE e4 in questi individui era associata a un maggiore deterioramento delle funzioni cognitive.
Per capire quale fosse il meccanismo molecolare di azione del Ddt e dei suoi derivati, i ricercatori hanno esposto cellule neuronali di ratto in coltura ad alte dosi di entrambi i composti (Ddt e Dde), paragonabili a quelle trovate nei malati. Rispetto alle cellule di controllo, in quelle trattate con l’insetticida aumentava la produzione del precursore della proteina beta amiloide, il costituente delle placche amiloidi responsabili dei sintomi tipici dell’Alzheimer.
“Il Ddt è stato precedentemente associato allo sviluppo del Parkinson – spiega Allan Levey, uno degli autori della ricerca – il suo ruolo nella patogenesi dell’Alzheimer finora era sconosciuto. Questo è il primo studio che identifica un importante fattore di rischio ambientale per questa malattia neurodegenerativa, suggerendo che l’Alzheimer è dovuto a una combinazione di fattori genetici e ambientali”.
Sebbene l’uso del Ddt sia stato vietato quasi ovunque già negli anni ’70 e ’80 (in Italia era il 1978), la vita media di questo composto e dei suoi prodotti di scarto è di circa 8-10 anni, per cui ci vogliono tempi lunghi per eliminarlo completamente. Inoltre, il Ddt è ancora usato in alcuni paesi come l’India e la Corea del Nord, esportatori di prodotti di largo consumo, tra cui frutta e verdura. A questo si aggiunge che l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2006 ha reintrodotto l’uso del Ddt in diversi paesi in Africa per arginare la diffusione della malaria.
Alla luce di questi fatti, concludono gli autori, i risultati di questo studio sono molto importanti e potrebbero avere implicazioni cliniche notevoli. Infatti, se confermata in altri trial clinici, la combinazione di elevati livelli plasmatici di Dde e della variante e4 del gene ApoE potrebbe essere usata come test per identificare precocemente pazienti ad alto rischio di sviluppare l’Alzheimer.
Riferimenti: Jama Neurology doi:10.1001/jamaneurol.2013.6030
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