Da De Martino a Dennett, anzi viceversa, se seguiamo il percorso rigorosamente bottom-up sul quale insistono Massimo Marraffa e Alfredo Paternoster in Sentirsi esistere (Editore Laterza, Bari 2013 pp. 207, euro 11,99). Al termine della lettura, ciò che colpisce è la vastità dei terreni che l’indagine di Marraffa e Paternoster ha attraversato, magari talvolta solo sfiorato, ma sempre con una coerenza e una pertinenza foriere di ulteriori notevoli sviluppi. I terreni in questione vanno ben al di là di quanto le pubblicazioni in scienze cognitive mediamente riescano ad abbracciare, e partono dalla neurobiologia per arrivare alla psicologia clinica e all’antropologia. I due filosofi della mente si destreggiano con abilità in questa selva di studi teorici ed empirici, i quali, però (come recita efficacemente l’esergo del primo capitolo, tratto da Paolo Bozzi), solo se tenuti assieme possono fornirci risposte a temi filosofici fondamentali: nel caso di questo libro niente di meno che la natura dell’Io.
Oltre Freud: conscio e inconscio nelle scienze cognitive
La costruzione di una teoria dell’Io, secondo gli autori, deve servirsi degli strumenti che le scienze cognitive hanno affinato anche a confronto con una filosofia che, negli ultimi quarant’anni, le ha spesso sfidate, contribuendo a rielaborarle, a migliorarle. Il primo capitolo della monografia traccia, dunque, il profilo computazionale e rappresentazionale che l’inconscio delle scienze cognitive ha assunto, superando l’idea di inconscio freudiano (concepito ancora troppo a immagine e somiglianza di un soggetto, per quanto mascherato ed ermetico).
Il secondo capitolo mette in luce come le scienze cognitive si siano progressivamente riappropriate anche della mente cosciente, proprio a partire dalla postulazione di stati mentali subpersonali a spiegazione del comportamento. È qui che l’influenza della Global Workspace Theory di Baars e di Dennett (quest’ultimo tra i primi a offrire un quadro piuttosto articolato del fenomeno della Coscienza, 1991), emerge con forza, sebbene Marraffa e Paternoster ne rifiutino l’esito eliminativista.
Essi optano, invece, per un ancoraggio della coscienza al corpo, prima ancora che al cervello, sulla scorta degli studi di Antonio Damasio, il quale ha distinto un proto-Io (che ha origine nel tronco encefalico e nelle sensazioni elementari di benessere/malessere corporeo da esso procurate), da un Io nucleare (nel momento in cui il proto-io è modificato da un’interazione con l’ambiente) e da un Io autobiografico (prodotto dall’interazione coordinata tra tronco e corteccia cerebrali, che tiene insieme le tracce biografiche sparse dai vari io nucleari).
Coscienza e autocoscienza
La maggiore obiezione degli autori a Damasio (e ad altri autori di orientamento fenomenologico) è che il fenomeno dell’Io, ovvero dell’autocoscienza, va distinto da quello della semplice coscienza, sia a livello filogenetico che ontogenetico: «un conto è dire che un organismo è (de facto) un soggetto, un altro che percepisce se stesso come soggetto» (p. 103). L’autocoscienza è analizzata in dettaglio nel terzo (e poi nel quarto) capitolo, mettendo in campo una certa mole di dati sperimentali provenienti dalla psicologia dello sviluppo e dall’etologia, allo scopo di distinguere un’autocoscienza corporea (di cui anche scimpanzé e bambini tra i 18 e i 24 me- si sarebbero provvisti) da un’autocoscienza riflessiva o autobiografica.
La seconda emerge grazie agli scambi linguistici col care-giver tra i 3 e i 4 anni, e poi si consolida durante l’infanzia e l’adolescenza tramite pratiche sociali narrative e autodescrittive, le quali, potremmo dire semplificando, segnano il passaggio dalla natura alla cultura. Sono tali pratiche, a detta di Marraffa e Paternoster (qui debitori verso gli ultimi lavori del filosofo Peter Carruthers) a consentire parallelamente l’accesso alla propria e alle menti altrui, mediante un’opera interpretativa che sembrerebbe confutare qualsiasi ipotesi di un accesso diretto ai propri pensieri (e alle loro cause).
Costruire e proteggere l’identità: l’Io autobiografico
La natura difensiva dell’Io autobiografico è l’oggetto del quarto e ultimo capitolo. Concordando con Freud, per il quale l’IO funge da mera facciata dell’ES, i due autori pervengono alla seguente sintesi: «l’autocoscienza in quanto Io autobiografico è un’attività di riappropriazione narrativa dei prodotti finali della macchina computazionale inconscia; e questa attività ha un carattere essenzialmente autodifensivo, essendo retta dall’esigenza primaria e universale di costruire e proteggere un’identità soggettiva la cui solidità e chiarezza è il fondamento degli equilibri intra e interpersonale dell’organismo umano» (p. 159). È qui che il pensiero dell’antropologo Ernesto De Martino viene recuperato dagli autori, come raccomandato qualche anno fa dallo psichiatra Giovanni Jervis, che ne era stato assistente e che ne intravide una possibile naturalizzazione.
Il progetto viene abbozzato da Marraffa e Paternoster rielaborando l’idea di un processo continuo di riappropriazione della presenza a se stesso (il sentirsi esistere) dell’uomo nella storia e nella cultura (idea di De Martino) come processo fondato su quell’insicurezza ontologica primaria a cui già negli anni Sessanta del secolo scorso la psichiatria e la psicologia (Laing, Balint, Bowlby, Winnicott) avevano ricondotto la nevrosi, superando la centralità freudiana della sessualità. Il quadro tracciato dai due autori è, dunque, estremamente interessante, perché in grado di tenere assieme in modo magistrale discipline assai distanti ed è, nonostante la rapidità o la scivolosità di alcuni passaggi (vedi proprio la sessualità o la mancanza di certa letteratura sull’embodiment), destinato ad alimentare un dibattito di cui, soprattutto in Italia, si sente particolarmente il bisogno.