Il caso Di Bella è definitivamente chiuso? A due settimane dalla presentazione dei risultati della sperimentazione della multiterapia anticancro messa a punto dall’anziano fisiologo modenese, le parti in campo nella più contesa vicenda sanitaria della nostra storia si siedono a fare un bilancio. Da un lato c’è la medicina ufficiale forte della debacle clinica registrata dagli sperimentatori in ben 40 centri oncologici su 386 pazienti arruolati nei nove protocolli della sperimentazione, dall’altro i dibellisti impegnati sul fronte giudiziario a gettare più discredito possibile sul lavoro dei tecnici dell’Istituto Superiore di Sanità incaricati dal governo di dire l’ultima parola sulla terapia. In mezzo l’opinione pubblica: dispiaciuta dei risultati negativi della sperimentazione, irritata dai toni violenti e spesso incomprensibili con cui si è giocata la partita, ma soprattutto speranzosa che qualcosa i potenti della medicina italiana abbiano imparato dal burrascoso caso Di Bella.
Le ragioni della medicina ufficiale sono riassunte nei numeri dell’Iss: 219 morti, 129 pazienti che stanno sempre peggio, 22 che hanno abbandonato la cura per i devastanti effetti collaterali, e soltanto 13 casi di stabilizzazione e 3 remissioni parziali. Sono dati che non consentono il benché minimo ottimismo, che spazzano via la multiterapia Di Bella come inutile, e impediscono a qualunque comitato etico di autorizzare un’altra fase di sperimentazione. (Questa conclusa è una sperimentazione di fase 2, mirata cioè a verificare l’efficacia antitumorale del trattamento, se si fosse dimostrata seppur minimamente efficace si poteva passare ad una Fase 3 per confrontarne l’efficacia con quella di altri trattamenti antitumorali. Poiché così non è stato sarebbe del tutto immorale compiere questo passo perché significherebbe coscientemente privare dei malati di trattamenti efficaci e somministrare loro una cura di non provata efficacia). Dunque: per commissione oncologica ed istituto superiore di sanità il caso è chiuso.
Non lo è invece per i dibellisti guidati da un lato dal figlio del professore, l’otorinolaringoiatra bolognese Giuseppe Di Bella, e dall’aitante portavoce Ivano Camponeschi che accusano gli sperimentatori di avere usato nella miscela di retinoidi prevista dalla multiterapia dell’acetone, tossico per i malati; e dall’altro dal giudice di Maglie, Carlo Madaro, che ha raccolto 500 cartelle cliniche di miracolati dalla multiterapia e minaccia una controsperimentazione. La questione dell’acetone è nelle mani della magistratura che ha sequestrato interi lotti di flacconi di retinoidi per verificare se c’è o no la truffa. Ma, dal punto di vista tecnico sembra una gran bufala: le tracce di acetone riscontrate nello sciroppo, infatti, sono di gran lunga inferiori a quelle ammesse dalle linee guida internazionali per la preparazione dei farmaci che assicurano la nullità degli effetti del composto a quelle dosi. Di Bella tuona che in quello usato dai suoi farmacisti non ci sono tracce. Ma di nuovo sembra non sapere di cosa sta parlando: il nulla in chimica non esiste e i suoi farmacisti non vedono le tracce di acetone semplicemente perché usano dei metodi di rilevamento grezzi come le banali cartine che si comprano in farmacia. Come andrà a finire? Lo deciderà la magistratura, e speriamo lo faccia avvalendosi di periti competenti.
Ma l’opinione pubblica più che dalla insipida storia dell’acetone è preoccupata da qualcosa di ben più serio. Il caso Di Bella è stato il più devastante processo alla medicina italiana del dopo-tangentopoli. I malati in piazza sono stati l’atto d’accusa più impietoso non tanto verso la ovvia impossibilità dell’oncologia di guarire il cancro, quanto verso la colpevole incapacità degli oncologi (e dei medici) di parlare e ascoltare chi soffre. Le urla televisive e le fiaccolate per le vie di Roma sono state il grido di rabbia della povera gente contro i baroni luccicanti e abbronzati capaci solo di arroganza e rapacità. C’è qualcuno che lo abbia capito? Il ministro Rosy Bindi, lontana dai microfoni giura di sì, gli oncologi pure. Sarà vero? Lo scopriremo solo col passare dei mesi e degli anni. E il compito, dei mass media e delle associazioni dei malati, allora, è di controllarli. Di pedinarli passo dopo passo e denunciare con la violenza del caso qualunque malversazione. Non sappiamo se ci riusciremo. Ma certo questa è la scommessa del dopo-Di Bella. E in questo senso, il caso Di Bella certamente non è chiuso.