Robot e interfaccia cervello-macchina sono parole che vanno parecchio di moda. La possibilità di comandare il movimento degli oggetti con il solo pensiero, compresi gli arti di persone che hanno subìto un ictus, è infatti al centro di molti progetti. In diversi laboratori del mondo – non in ultimo qui in Italia – team di ingegneri e neuroscienziati sono in corsa per realizzare un sistema in grado di interpretare i segnali elettrici del cervello degno dei migliori libri di fantascienza. Possibilmente non invasivo e wireless.
Nessuna illusione: siamo lontani decenni da quelle visioni. Però gli spunti per mantenere viva l’immaginazione non mancano. L’ultimo arriva da Nature, dove la BrainGate Collaboration pubblica i dati del suo trial clinico – BrainGate2 – in corso dal 2004 e condotto da Leigh Hochberg, docente di ingegneria presso la Brown University di Providence (Usa).
E il risultato principale è questo: una signora di 58 anni e un uomo di 66, entrambi costretti su una sedia a rotelle da molti anni per un ictus, si sono serviti del caffè. Da soli. Per l’esattezza, hanno comandato a un braccio robotico (DEKA Arm System) di muoversi verso un contenitore posto su un tavolo, di afferrarlo e di trasportarlo alla loro bocca. Finito di bere, lo hanno rimesso al suo posto.
Il BrainGate System, ovvero l’interfaccia cervello-macchina in sperimentazione, si basa su un piccolo sensore in silicio (grande più o meno come un’unghia) impiantato nella corteccia motoria dei pazienti. Questo chip, in cui sono presenti circa un centinaio di minuscoli elettrodi (spessi quanto un capello) registra l’attività di piccoli gruppi di neuroni e comunica i segnali – per ora tramite fili – a un hardware esterno. Qui un software, opportunamente addestrato, interpreta questi segnali e li trasforma in comandi di azione: in pratica fornisce a un robot delle precise coordinate nello spazio a tre dimensioni. I pazienti non devono far altro che immaginare di muovere il proprio braccio verso la lattina, di stringerla e di portarla alla bocca. Non è richiesto alcuno sforzo particolare di concentrazione.
Per quanto strabiliante e importante, non è la prima volta che viene raggiunto un traguardo simile, ma la ricerca risponde ad alcune domande importanti: i neuroni della corteccia motoria muoiono o smettono di produrre segnali se non vengono più stimolati? E se sì, dopo quanto tempo accade questo? Ancora: per quanto tempo può funzionare un chip impiantato nella corteccia motoria? Le cellule nervose forniscono dati di buona qualità?
Ora, grazie all’esperimento condotto sulla donna, i neuroscienziati sanno che anche dopo 15 anni di immobilità causata da un ictus, i neuroni motori inviano i loro segnali ricchi di informazioni, e che i sensori impiantabili hanno una durata che supera i 5 anni.
Veniamo agli altri risultati. Durante la fase di allenamento, i due volontari hanno imparato a eseguire compiti complessi con due modelli diversi di braccia robotiche. Uno degli esercizi consisteva nell’afferrare palle di gomma posizionate a differenti altezze. I due partecipanti hanno portato a termine il compito con successo nel 62 per cento e nel 46 per cento dei casi, e con una velocità media di circa 10 secondi.
Questi numeri danno un’idea di quanto la ricerca abbia ancora bisogno di tempo. Intanto, però, la tecnologia ha dimostrato (per ora nelle scimmie) di poter essere teoricamente applicata non solo agliarti robotici, ma a quelli veri delle persone con disabilità, connettendo il sensore e l’hardware ai muscoli motori di gambe e braccia.
via wired.it